Dial. 1
Interlocutori: Sofia, Saulino, Mercurio.
Prima parte del primo dialogo.
1 \ SOFIA\ Talché, se ne li corpi, materia ed ente non
fusse la mutazione,
varietade e vicissitudine, nulla sarrebe
conveniente, nulla di buono, niente
delettevole.
2 \ SAUL.\ Molto bene l'hai dimostrato, Sofia.
3 \ SOFIA\ Ogni delettazione non veggiamo consistere in
altro, che in certo
transito, camino e moto. Atteso che fastidioso
e triste è il stato de la fame;
dispiacevole e grave è il stato della sazietà:
ma quello che ne deletta, è il
moto da l'uno a l'altro. Il stato del venereo
ardore ne tormenta, il stato
dell' isfogata libidine ne contrista; ma
quel che ne appaga, è il transito da
l'uno stato a l'altro. In nullo esser presente si trova
piacere, se il passato
non n'è venuto in fastidio. La fatica non piace, se non in
principio, dopo il
riposo; e se non in principio, dopo la fatica, nel riposo
non è delettazione.
4 \ SAUL.\ Se cossì è, non è delettazione senza mistura di tristezza, se nel
moto è la participazione di quel che contenta e di quel
che fastidisce.
5 \ SOFIA\ Dici bene. A quel che è detto aggiongo, che
Giove qualche volta, come
li venesse tedio di esser Giove, prende certe vacanze ora
di agricoltore, ora di
cacciatore, ora di soldato; adesso è con gli dei, adesso
con gli uomini, adesso
con le bestie. Color che sono ne le ville, prendeno la lor
festa e spasso ne le
cittadi; quei che sono nelle cittadi, fanno le loro relassazioni, ferie e
vacanze ne le ville. A chi è stato assiso o
colcato, piace e giova il caminare;
e chi ha discorso con gli piedi, trova refrigerio nel
sedere. Ha piacer nella
campagna chi troppo ha dimorato in tetto:
brama la stanza chi è satollo del
campo. Il frequentar un cibo, quantunque
piacevole, è caggione di nausea al
fine. Tanto che la mutazione da uno contrario a l'altro
per gli suoi participii,
il moto da uno contrario a l'altro per gli suoi mezzi
viene a soddisfare; ed in
fine veggiamo tanta familiarità di un contrario con
l'altro, che uno più
conviene con l'altro, che il simile con il simile.
6 \ SAUL.\ Cossì mi par vedere, perché la giustizia non ha
l'atto se non dove è
l'errore, la concordia non s' effettua se
non dove è la contrarietade; il sferico
non posa nel sferico, perché si toccano in punto, ma il concavo si quieta nel
convesso; e moralmente il superbo non può
convenire col superbo, il povero col
povero, l'avaro con l'avaro; ma si compiace
l'uno nell'umile, l'altro nel ricco,
questo col splendido. Però, se fisica-,
matematica- e moralmente si considera,
vedesi che non ha trovato poco quel
filosofo che è dovenuto alla raggione della
coincidenza de contrarii, e non è imbecille prattico quel mago che la sa cercare
dove ella consiste. Tutto, dunque, che avete proferito,
è verissimo: ma vorrei
sapere, o Sofia, a che proposito, a che fine voi lo dite.
7 \ SOFIA\ Quello che da ciò voglio inferire, è che il
principio, il mezzo ed il
fine, il nascimento, l'aumento e la
perfezione di quanto veggiamo, è da
contrarii, per contrarii, ne' contrarii, a contrarii: e
dove è la contrarietà, è
la azione e reazione, è il moto, è la diversità, è la moltitudine, è l'ordine,
son gli gradi, è la successione, è la vicissitudine.
Perciò nessuno, che ben
considera, giamai per l'essere ed aver presente si desmetterà o s'inalzarà
d'animo, quantunque, in comparazion d'altri
abiti e fortune, gli paia buono o
rio, peggiore o megliore. Tal io con il mio divino
oggetto, che è la verità,
tanto tempo, come fuggitiva, occolta,
depressa e sommersa, ho giudicato quel
termine, per ordinanza del fato, come principio del mio
ritorno, apparizione,
essaltazione e magnificenza tanto più
grande, quanto maggiori son state le
8 \ SAUL.\ Cossì aviene, che chi vuol più gagliardamente
saltando alzarsi da
terra, li fia mestiero che prima ben si recurve;
e chi studia di superar più
efficacemente trapassando un fosso, accatta talvolta l'émpito, sé ritirando otto
o diece passi a dietro.
9 \ SOFIA\ Tanto più, dunque, spero nel
futuro meglior successo, per grazia del
fato, quanto sin al presente mi son trovata al peggio.
10 \ SAUL.\ ... Quanto più depresso,
Quanto è più l'uom di questa ruota al fondo,
Tanto a quel punto più si trova appresso,
C'ha da salir, si de' girarsi
in tondo:
Alcun sul ceppo quasi il capo ha messo,
Che l'altro giorno ha dato legge al mondo.
11 Ma, di grazia, séguita, Sofia, a specificar
più espressamente il tuo
proposito.
12 \ SOFIA\ Il tonante Giove, dopo che
tanti anni ha tenuto del giovane, s'è
portato da scapestrato ed è
stato occupato ne l'armi e ne gli amori, ora, come
domo dal tempo, comincia a declinare da le lascivie
e vizii e quelle condizioni
che la virilitade e gioventude apportan
seco.
13 \ SAUL.\ Poeti sì, filosofi non mai hanno sì fattamente
descritti ed
introdotti gli dei. Dunque, Giove e gli
altri dei invecchiano? dunque, non è
impossibile ch'ancor essi abbiano ad oltrepassar
le rive di Acheronte?
14 \ SOFIA\ Taci, non mi levar
di proposito, Saulino. Ascoltami sin al fine.
15 \ SAUL.\ Dite pure, ch'io attentissimamente
vi ascolto; perché son certo, che
dalla tua bocca non esceno se non grandi e gravi
propositi: ma dubito che la mia
testa non le possa capire e sustenere.
16 \ SOFIA\ Non dubitate. Giove, dico,
comincia ad esser maturo, e non admette
oltre nel conseglio, eccetto che persone ch'hanno in capo la
neve, alla fronte
gli solchi, al naso gli occhiali, al mento la farina,
alle mani il bastone, ai
piedi il piombo: in testa, dico, la
fantasia retta, la cogitazion sollecita, la
memoria ritentiva; ne la fronte la sensata apprensione, ne gli occhi la
prudenza, nel naso la sagacità, nell'orecchio
l'attenzione, ne la lingua la
veritade, nel petto la sinceritade, nel core gli ordinati
affetti, ne le spalli
la pazienza, nel tergo l' oblivio de le offese, nel stomaco la discrezione, nel
ventre la sobrietade, nel seno la continenza, ne le gambe
la constanza, ne le
piante la rettitudine, ne la sinistra il pentateuco di decreti, nella destra la
raggione discussiva, la scienza indicativa,
la regolativa giustizia,
l' imperativa autoritade e la potestà executiva.
17 \ SAUL.\ Bene abituato: ma bisogna, che
prima sia ben lavato, ben ripurgato.
18 \ SOFIA\ Ora non son bestie nelle quali si trasmute,
non Europe che
l' incornino in toro, non Danae che lo impallidiscano in oro, non Lede che
l' impiumino in cigno, non ninfe Asterie
e frigii fanciulli che lo imbecchino in
aquila, non Dolide che lo inserpentiscano,
non Mnemosine che lo degradino in
pastore, non Antiope che lo semibestialino
in Satiro, non Alcmene che lo
trasmutino in Anfitrione:
perché quel temone che volgeva e dirizzava
questa nave
de le metamorfosi, è dovenuto sì fiacco,
che poco più che nulla può resistere a
l'émpito de l'onde, e forse che l'acqua ancora gli va
mancando a basso. La vela
è di maniera tale stracciata e sbusata,
che in vano per ingonfiarla il vento
soffia. Gli remi, ch'al dispetto di
contrarii venti e turbide tempeste soleano
risospingere il vascello
avanti, ora, faccia quantosivoglia calma, e sia a sua
posta tranquillo il campo di Nettuno, in vano il comite sibilarà a orsa, a
poggia, a la sia, a la voga, perché gli
remigatori son dovenuti come paralitici.
19 \ SAUL.\ Oh gran caso!
20 \ SOFIA\ Indi non fia chi più dica e favoleggi
Giove per carnale e
voluttuario; perché al buon padre s'è addonato il spirito.
21 \ SAUL.\ Come colui, che tenea già tante
moglie, tante ancelle di moglie e
tante concubine, al fine dovenuto qual ben
satollo, stuffato e lasso, disse:
Vanità, vanità, ogni cosa è vanità?
22 \ SOFIA\ Pensa al suo giorno del giudizio, perché il
termine de gli o più o
meno o a punto trentasei mila anni, come è publicato, è
prossimo; dove la
revoluzion de l'anno del mondo minaccia,
ch'un altro Celio vegna a repigliar il
domìno e per la virtù del cangiamento ch'apporta il moto
de la trepidazione, e
per la varia, e non più vista, né udita relazione ed
abitudine di pianeti. Teme
che il fato disponga, che l' ereditaria
successione non sia come quella della
precedente grande mondana revoluzione, ma
molto varia e diversa, cracchieno
quantosivoglia gli pronosticanti astrologi ed altri divinatori.
23 \ SAUL.\ Dunque, si teme che non vegna qualche più
cauto Celio, che,
all'essempio del prete Gianni,
per obviare a gli possibili futuri inconvenienti,
non bandisca gli suoi figli a gli serragli
del monte Amarat, ed oltre, per tema
che qualche Saturno non lo castre, non
faccia mai difetto di non allacciarsi le
mutande di ferro, e non si riduca
a dormire senza braghe di diamante. Laonde,
non succedendo l'antecedente effetto,
verrà chiusa la porta a tutti gli altri
conseguenti, ed in vano s' aspettarà
il giorno natale della Dea di Cipro, la
depressione del zoppo Saturno, l' essaltazion di Giove, la moltiplicazion di
figli e figli de' figli, nipoti e nipoti de' nipoti, sino
a la tantesima
generazione, quantesima è a tempi nostri,
e può sin al prescritto termine essere
ne gli futuri.
Nec iterum ad Troiam magnus
mittetur Achilles.
24 \ SOFIA\ In tal termine, dunque, essendo la condizion
de le cose, e vedendo
Giove ne l'importuno memoriale de la sfiancuta
forza e snervata virtude
appressarsi come la sua morte, cotidianamente fa caldi voti ed effonde ferventi
preghiere al fato, acciò che le cose ne
gli futuri secoli in suo favore vegnano
25 \ SAUL.\ Tu, o Sofia, me dici de le maraviglie. Volete
voi che non conosca
Giove la condizion del fato, che per proprio e pur troppo divolgato epiteto è
intitolato inesorabile? È pur verisimile,
che nel tempo de le sue vacanze (se
pur il fato gli ne concede), talvolta si volga a leggere qualche poeta; e non è
difficile che gli sia pervenuto alle mani
il tragico Seneca, che li done questa
lezione:
Fato ne guida, e noi cedemo al fato;
E i rati stami del contorto fuso
Solleciti pensier mutar non ponno.
Ciò che facciamo e comportiamo, d'alto
E prefisso decreto il tutto pende;
E la dura sorella
Il torto filo non ritorce a dietro.
Discorron con cert'ordine
le Parche,
Mentre ciascun di noi
Va incerto ad incontrar gli fati
suoi.
26 \ SOFIA\ Ancora il fato vuol questo, che, benché sappia
il medesimo Giove che
quello è immutabile, e che non possa essere altro che quel
che deve essere e
sarà, non manchi d'incorrere per cotai
mezzi il suo destino. Il fato ha ordinate
le preci, tanto per impetrare, quanto per
non impetrare; e per non aggravar
troppo gli animi trasmigranti, interpone
la bevanda del fiume Leteo, per mezzo
de le mutazioni, a fine che, mediante
l'oblio, ognuno massime vegna affetto e
studioso di conservarsi nel stato presente. Però li giovani non richiamono il
stato de la infanzia, gl' infanti
non appeteno il stato nel ventre de la madre, e
nessuno di questi il stato suo in quella vita, che vivea prima che si trovasse
in tal naturalitade. Il porco non vuol
morire per non esser porco, il cavallo
massime paventa di scavallare.
Giove per le instante necessitadi sommamente teme
di non esser Giove. Ma, la mercé e grazia del fato, senza
averlo imbibito de
l'acqua di quel fiume, non cangiarà il suo
stato.
27 \ SAUL.\ Talché, o Sofia (cosa inaudita!),
questo nume ancora av'egli dove
effondere orazioni? esso
ancora versa nel timore della giustizia? Mi
maravigliavo io, perché gli dei sommamente temevano
di spergiurare la Stigia
palude; ora comprendo che questo procede
dal fio che denno pagare anch'essi.
28 \ SOFIA\ Cossì è. Ha ordinato al suo fabro Vulcano, che
non lavore de giorni
di festa; ha comandato a Bacco che non faccia comparir
la sua corte, e non
permetta debaccare le sue Evanti,
fuor che nel tempo di carnasciale, e nelle
feste principali de l'anno, solamente dopo
cena, appresso il tramontar del sole,
e non senza sua speciale ed espressa
licenza. Momo, il quale avea parlato contra
gli dei, e, come a essi pareva, troppo
rigidamente arguiti gli loro errori, e
però era stato bandito dal concistoro e conversazion di
quegli, e relegato alla
stella ch'è nella punta de la coda di Calisto, senza
facultà di passar il
termine di quel parallelo a cui sottogiace
il monte Caucaso, dove il povero dio
è attenuato dal rigor del freddo e de la
fame; ora è richiamato, giustificato,
restituito al suo stato pristino, e posto precone ordinario ed estraordinario
con amplissimo privileggio
di posser riprendere gli vizii, senza aver punto
risguardo a titolo o dignitade di persona
alcuna. Ha vietato a Cupido d'andar
più vagando, in presenza degli uomini, eroi e dei, cossì sbracato, come ha di
costume; ed ingiontoli che non offenda oltre la vista de Celicoli, mostrando le
natiche per la via lattea, ed Olimpico
senato: ma che vada per l'avenire vestito
almeno da la cintura a basso; e gli ha fatto strettissimo
mandato che non
ardisca oltre di trar dardi
se non per il naturale, e l'amor de gli uomini
faccia simile a quello de gli altri animali, facendoli a
certe e determinate
staggioni inamorare; e cossì, come a gli gatti è ordinario il marzo, a gli asini
il maggio, a questi sieno accomodati
que' giorni ne' quali se innamorò il
Petrarca di Laura, e Dante di Beatrice; e questo statuto è in forma
de interim
sino al prossimo concilio futuro, entrante
il sole al decimo grado di Libra, il
quale è ordinato nel capo del fiume Eridano, là dove è la
piegatura del
ginocchio d'Orione. Ivi si ristorarà
quella legge naturale, per la quale è
lecito a ciascun maschio di aver tante moglie quante ne
può nutrire ed
impregnare; perché è cosa superflua
ed ingiusta, ed a fatto contrario alla
regola naturale, che in una già impregnata
e gravida donna, o in altri soggetti
peggiori, come altre illegitime procacciate, - che per tema di vituperio
provocano l' aborso, - vegna ad esser
sparso quell' omifico seme che potrebbe
suscitar eroi e colmar le vacue sedie de
l'empireo.
29 \ SAUL.\ Ben provisto, a mio giudizio: che più?
30 \ SOFIA\ Quel Ganimede, ch'al marcio dispetto de la
gelosa Giunone, gli era
tanto in grazia, ed a cui solo liceva d' accostarsegli, e porgergli li fulmini
trisolchi, mentre a lungi passi a dietro riverentemente si tenevano gli dei, al
presente credo che, se non ha altra virtute
che quella che è quasi persa, è da
temere che da paggio di Giove non debba
aver a favore di farsi come scudiero a
Marte.
31 \ SAUL.\ Onde questa mutazione?
32 \ SOFIA\ E da quel che è detto del cangiamento di
Giove, e perché lo
invidioso Saturno ai giorni passati, con
finta di fargli de vezzi, gli andò di
maniera tale rimenando la ruvida mano per il mento e per
le vermiglie gote, che
da quel toccamento se gl' impela
il volto, di sorte che pian piano va scemando
quella grazia che fu potente a rapir
Giove.dal cielo, e farlo essere rapito da
Giove in cielo, ed onde il figlio d'un uomo venne deificato, ed ucellato il
padre de gli dei.
33 \ SAUL.\ Cose troppo stupende! Passate
oltre.
34 \ SOFIA\ Ha imposto a tutti gli dei di non aver paggi o
cubicularii di minore
etade che di vinticinque anni.
35 \ SAUL.\ Ah ah? Or che fa, che dice Apolline del suo
caro Giacinto?
36 \ SOFIA\ Oh se sapessi, quanto è egli
mal contento!
37 \ SAUL.\ Certo credo che la sua contristazione
caggiona questa oscurità del
cielo, ch'ha perdurato più di sette giomi;
il suo alito produce tante nuvole, i
suoi suspiri sì tempestosi venti, e le sue
lacrime sì copiose piogge.
38 \ SOFIA\ Hai divinato.
39 \ SAUL.\ Or, che sarà di quel povero fanciullo?
40 \ SOFIA\ Ha preso partito di mandarlo a studiar
lettere umane in qualche
universitade o collegio riformato, e
sottoporlo a la verga di qualche pedante.
41 \ SAUL.\ O fortuna, o sorte traditora!
Ti par questo boccone da pedanti? Non
era meglio sottoporlo alla cura d'un poeta, farlo a la
mano d'un oratore, o
avezzarlo su il baston de
la croce? Non era più espediente d' ubligarlo
sotto la
disciplina di....
42 \ SOFIA\ Non più, non più! Quel che deve essere, sarà;
quel che esser devea,
è. Or per compire l'istoria di Ganimede, l'altr'ieri, sperando le solite
accoglienze, con quell' usato
ghigno fanciullesco li porgeva
la tazza di nettare;
e Giove, avendogli alquanto fissati gli turbidi occhi al volto: - Non ti
vergogni, li disse, o figlio di Troo? pensi ancor essere putto? forse che con
gli anni ti cresce la discrezione, e ti s' aggionge
di giudizio? non ti accorgi
che è passato quel tempo, quando mi venevi
ad assordir l'orecchie, che, allora
ch' uscivamo per l'atrio esteriore, Sileno,
Fauno, quel di Lampsaco ed altri si
stimavano beati, se posseano aver la commodità di rubbarti una pizzicatina, o
almeno toccarti la veste, ed in memoria di
quel tocco non si lavar le mani,
quando andavano a mangiare, e far de
l'altre cose che li dettava la fantasia?
Ora dispònite, e pensa che forse ti
bisognarà di far altro mestiero. Lascio che
io non voglio più frasche appresso di me. - Chi avesse
veduto il cangiamento di
volto di quel povero garzone o adolescente, non so se la compassione, o il riso,
o la pugna de l'uno e l'altro affetto
l'avesse mosso di vantaggio.
43 \ SAUL.\ Questa volta credo io, che risit
Apollo.
44 \ SOFIA\ Attendi, perché quel ch'hai
sin ora udito, non è altro che fiore.
45 \ SAUL.\ Di' pure.
46 \ SOFIA\ Ieri che fu la festa in commemorazion del
giorno de la vittoria de
dei contra gli giganti, immediatamente
dopo pranso, quella, che sola governa la
natura de le cose, e per la qual gode tutto quel che gode
sotto il cielo,
La bella madre del gemino amore,
La diva potestà d'uomini e dei,
Quella per cui ogni animante al mondo
Vien conceputo, e nato vede il sole,.
Per cui fuggono i venti e le tempeste,
Quando spunta dal lucid'oriente,
Gli arride il mar tranquillo, e di bel
manto
La terra si rinveste, e gli presenta
Per belle man di Naiade
gentili
Di copia di fronde, fiori
e frutti
Colmo il smaltato corno d'Acheloo.
avendo ordinato il ballo, se gli fece innante con quella
grazia che
consolarebbe ed invaghirebbe
il turbido Caronte; e come è il dovero de l'ordine,
andò a porgere la prima mano a Giove. Il quale, - in loco
di quel ch'era uso di
fare, dico, di abbracciarla col sinistro braccio, e strenger petto a petto, e
con le due prime dita della destra premendogli il labro inferiore, accostar
bocca a bocca, denti a denti, lingua a lingua (carezze più
lascive che possano
convenire a un padre in verso de la figlia), e con questo sorgere al ballo, -
ieri, impuntandogli la destra al petto, e ritenendola a dietro (come dicesse:
Noli me tangere), con un compassionevole aspetto ed una faccia piena di
devozione: - Ah Venere, Venere, li disse; è possibile che
pur una volta al fine
non consideri il stato nostro, e specialmente il tuo?
Pensi pur che sia vero
quello che gli uomini s' imaginano di noi,
che chi è vecchio è sempre vecchio,
chi è giovane è sempre giovane, chi è putto è sempre
putto, cossì perseverando
eterno, come quando da la terra siamo stati assunti
al cielo; e cossì, come là
la pittura ed il ritratto nostro si contempla sempre
medesimo, talmente qua non
si vada cangiando e ricangiando la vital
nostra complessione? Oggi per la festa
mi si rinova la memoria di quella
disposizione, nella quale io mi ritrovavo
quando fulminai e debellai
que' fieri giganti che ardîro di ponere sopra Pelia
Ossa, e sopra Ossa Olimpo; quando io il feroce Briareo, a cui la madre Terra
avea donate cento braccia e cento mani, acciò potesse con
l'émpito di cento
versati scogli contra gli dei debellare il
cielo, fui potente di abissare alle
nere caverne dell'orco voraginoso; quando relegai il presuntuoso Tifeo là dove
il mar Tirreno col Jonio
si congionge, spingendogli sopra l'isola
Trinacria, a
fin che al vivo corpo la fusse perpetua sepoltura.
Onde dice un poeta:
Ivi a l' ardito ed audace Tifeo,
Che carco giace del Trinacrio pondo,
Preme la destra del monte Peloro
La grieve salma; e preme la sinistra
Il nomato Pachin; e l' ampie
spalli,
Ch'al peso han fatto i calli,
Calca il sassoso e vasto Lilibeo;
E 'l capo orrendo aggrieva Mongibello,
Dove col gran martello
Folgori tempra il scabroso Vulcano.
47 Io che sopra quell'altro ho fulminata
l'isola di Prochita; io ch'ho reprimuta
l'audacia di Licaone, ed a tempo di
Deucalione liquefeci la terra al ciel
rubella; e con tanti altri manifesti segnali
mi son mostrato degnissimo della
mia autoritade; or non ho polso di contrastar
a certi mezi uomini, e mi bisogna,
al grande mio dispetto, a voto di caso e di fortuna lasciar
correre il mondo; e
chi meglio la séguita, l' arrive, e chi la vence, la goda. Ora son fatto qual
quel vecchio esopico lione,
a cui impune l'asino dona di calci, e la simia fa de
le beffe, e, quasi come ad un insensibil
ceppo, il porco vi si va a fricar la
pancia polverosa. Là dove io avevo nobilissimi oracoli, fani ed altari, ora,
essendono quelli gittati per terra ed indegnissimamente
profanati, in loco loro
han dirizzate are e statue
a certi ch'io mi vergogno nominare, perché son peggio
che li nostri satiri e fauni ed altri semebestie
anzi più vili che gli
crocodilli d'Egitto; perché quelli pure, magicamente
guidati, mostravano qualche
segno de divinità; ma costoro sono a fatto lettame
de la terra. Il che tutto è
provenuto per la ingiuria della nostra nemica
fortuna, la quale non l'ha eletti
ed inalzati tanto per onorar quelli,
quanto per nostro vilipendio, dispreggio e
vituperio maggiore. Le leggi, statuti, culti, sacrificii e
ceremonie, ch'io già
per li miei Mercurii ho donate, ordinati, comandati
ed instituiti, son cassi ed
annullati; ed in vece loro
si trovano le più sporche ed indegnissime poltronarie
che possa giamai questa cieca altrimente fengere, a fine
che, come per noi gli
omini doventavano eroi, adesso dovegnano peggio che bestie. Al nostro naso non
ariva più fumo di rosto,
fatto in nostro servizio da gli altari; ma se pur tal
volta ne viene appetito, ne fia mestiero d'andar a sbramarci per le cocine, come
dei patellari. E benché alcuni altari
fumano d' incenso (quod dat avara manus),
a
poco a poco quel fumo dubito che non se ne vada in fumo, a
fine che nulla
rimagna di vestigio ancora delle nostre sante
instituzioni. Ben conoscemo per
prattica, che il mondo è a punto come un gagliardo
cavallo, il quale molto ben
conosce quando è montato da uno che non lo può strenuamente maneggiare, lo
spreggia, e tenta di toglierselo da la schena; e gittato che l'ha in terra, lo
viene a pagar di calci. Ecco, a me si dissecca il corpo e
mi s' umetta il
cervello; mi nascono i tofi e mi cascano
gli denti; mi s' inora la carne e mi
s' inargenta il crine; mi
si distendeno le palpebre e mi si contrae la
vista; mi
s' indebolisce il fiato e
mi si rinforza la tosse; mi si fa fermo il
sedere e
trepido il caminare; mi trema
il polso e mi si saldano le coste; mi
s' assottigliano gli articoli
e mi s' ingrossano le gionture: ed in
conclusione
(quel che più mi tormenta), perché mi s' indurano
gli talloni e mi s' ammolla il
contrapeso, l' otricello de la cornamusa
mi s' allunga ed il bordon s'accorta:
La mia Giunon di me non è gelosa,
La mia Giunon di me non ha più cura.
48 Del tuo Vulcano (lasciando gli altri dei da canto)
voglio che consideri tu
medesima. Quello che con tanto vigore solea
percuotere la salda incudine, che a
gli fragrosi schiassi,
quali dall' ignivomo Etna uscivano
a l'orizonte. Eco dalle
concavitadi del campano Vesuvio e del sassoso Taburno, rispondeva,
- adesso dove
è la forza del mio fabro e tuo consorte? Non è ella
spinta? non è ella spinta?
Forse che ha più nerbo da gonfiar i folli per accendere il foco? forse ch'ha più
lena d'alzar il gravoso
martello per battere l' infocato metallo? Tu ancora, mia
sorella, se non credi ad altri, dimandane
al tuo specchio; e vedi come per le
rughe che ti sono aggionte, e per gli
solchi che l'aratro del tempo t' imprime ne
la faccia, porgi giorno per giorno maggior
difficultade al pittore, s'egli non
vuol mentire, dovendoti ritrare
per il naturale. Ne le guancie, ove ridendo
formavi quelle due fossette
tanto gentili, doi centri, doi punti in mezzo de le
tanto vaghe pozzette, facendoti il riso, che imblandiva il mondo
tutto, giongere
sette volte maggior grazia al volto, onde (come da gli
occhi ancora) scherzando
scoccava gli tanto acuti
ed infocati strali Amore: adesso, cominciando da gli
angoli de la bocca, sino a la già commemorata
parte, da l'uno e l'altro canto
comincia a scuoprirsi forma di quattro parentesi, che ingeminate par che ti
vogliano, strengendo la bocca, proibir il riso con quelli archi
circonferenziali, ch'appaiono tra gli
denti ed orecchi, per farti sembrar un
crocodillo. Lascio che, o ridi o non ridi, ne la fronte il
geometra interno, che
ti dissecca l'umido vitale, e con far più e più sempre
accostar la pelle a
l' osso, assottigliando la cute, ti fa profondar la descrizione
de le parallele a
quattro a quattro, mostrandoti per quelle
il diritto camino, il qual ti mena
come verso il defuntoro. - Perché piangi Venere? perché ridi, Momo? disse,
vedendo questo mostrar i denti, e quella versar lacrime.
Ancora Momo sa, quando
un di questi buffoni (de quali ciascuno
suol porgere più veritadi di fatti suoi
a l'orecchi del principe, che tutto il resto de la corte
insieme, e per quali
per il più color, che non ardiscono di
parlare, sotto specie di gioco parlano, e
fanno muovere e muovono de propositi)
disse che Esculapio ti avea fatta
provisione di polvere di corno di cervio e
di conserva di coralli, dopo averti
cavate due mole guaste
tanto secretamente, che ora non è pietruccia
in cielo che
nol sappia. Vedi, dunque, cara sorella, come ne doma il
tempo traditore, come
tutti siamo suggetti alla mutazione: e quel che più tra
tanto ne afflige, è che
non abbiamo certezza né speranza alcuna di
ripigliar quel medesimo essere a
fatto, in cui tal volta fummo. Andiamo, e
non torniamo medesimi; e come non
avemo memoria di quel che eravamo, prima
che fussemo in questo essere, cossì non
possemo aver saggio di quel che saremo da
poi. Cossì, il timore, pietà e
religione di noi, l'onore, il rispetto e l'amore vanno
via; li quali appresso la
forza, la providenza, la virtù, dignità, maestà e
bellezza, che volano da noi,
non altrimente che l'ombra insieme col corpo, si parteno.
La veritade sola con
l'absoluta virtude è inmutabile ed immortale: e se tal volta casca e si
sommerge, medesima necessariamente al suo
tempo risorge, porgendogli il braccio
la sua ancella Sofia. Guardiamoci, dunque,
di offendere del fato la divinitade,
facendo torto a questo gemino nume a lui tanto raccomandato e da lui tanto
faurito. Pensiamo al prossimo stato
futuro, e non, come quasi poco curando il
nume universale, manchiamo d' alzare
il nostro core ed affetto a quello
elargitore d'ogni bene e distributor
de tutte l'altre sorti. Supplichiamolo che
ne la nostra transfusione, o transito, o metampsicosi, ne dispense felici genii:
atteso che, quantunque egli sia inesorabile, bisogna pure aspettarlo con gli
voti o di essere conservati nel stato
presente, o di subintrar un altro
megliore, o simile, o poco peggiore. Lascio che l'esser
bene affetto verso il
nume superiore è come un segno di futuri effetti favorevoli da quello; come chi
è prescritto ad esser uomo, è necessario ed ordinario
ch'il destino lo guida,
passando per il ventre de la madre; il
spirto predestinato ad incorporarsi in
pesce, bisogna che prima vegna attuffato a
l'acqui: talmente a chi è per esser
favorito da gli numi conviene che passe per mezzo de buoni
voti ed operazioni.
Seconda parte del primo Dialogo.
1 Con questo dire, di passo in passo suspirando,
il gran padre de la patria
celeste, avendo finito il suo raggionamento con Venere, il
proposito di ballare
converse in proponimento di fare il gran conseglio con gli
dei de la tavola
ritonda: cioè tutti quei che non sono
apposticci, ma naturali, ed han testa di
conseglio, esclusi gli capi di montone, corna di bue, barbe di capro, orecchie
d'asino, denti di cane, occhi di porco, nasi
di simia, fronti di becco, stomachi
di gallina, pancie di cavallo, piedi di mulo e code di scorpione. Però, data la
crida per bocca di Miseno, figlio di Eolo
(perché Mercurio sdegna l'essere, come
anticamente fue, trombettiero
e pronunziator di editto), que' tutti dei,
ch'erano dispersi per il palaggio, si trovorno
ben presto radunati. Qua dopo
tutti, essendo fatto alquanto di silenzio, non men con
triste e mesto aspetto
che con alta presenza e preeminenza maestrale, menando i
passi Giove, prima che
montasse in solio e comparisse in tribunale, se gli appresenta Momo; il quale,
con la solita libertà di parlare, disse cossì con voce
tanto bassa che fu da
tutti udita: - Questo concilio deve essere differito ad
altro giorno ed altra
occasione, o padre, perché questo umore di venir in
conclave adesso, immediate
dopo pranso, pare che sia occasionato dalla
larga mano del tuo tenero coppiero;
perché il nettare, che non può essere dal stomaco ben digerito, non consola o
refocilla, ma altera e contrista la natura
e perturba la fantasia, facendo altri
senza proposito gai, altri disordinatamente
allegri, altri superstiziosamente
devoti, altri vanamente eroici, altri colerici, altri machinatori di gran
castegli, sin tanto che, col svanimento di
medesime fumositadi, che passano per
diversamente complessionati cervelli,
ogni cosa casca e va in fumo. A te, Giove,
par che abbian commosse le specie di gagliardi
e fluttuanti pensieri, e t'abbia
fatto dovenir triste; per ciò che inescusabilmente
ognuno ti giudica, benché io
solo ardisca di dirlo, vinto ed oppresso da
l'atra bile, perché in questa
occorrenza che non siamo convenuti
provisti a far conseglio, in questa occasione
che siamo uniti per la festa, in questo tempo dopo pranso,
e con queste
circonstanze d'aver ben mangiato e meglio
bevuto, volete trattar di cose tanto
seriose, quanto mi par intendere ed alcunamente posso annasare col discorso. -
Ora, perché non è consuetudine, né pur molto lecito a gli
altri dei di disputar
con Momo, Giove, avendolo con un mezzo ed alquanto dispettoso riso remirato,
senza punto rispondergli, monta su l'alta
catedra, siede, remira in cerchio la
corona de l'assistente gran Senato. Da quel sguardo
convien ch'a tutti venesse a
palpitar il core e per scossa di
maraviglia e per punta di timore e per émpito
di riverenza e di rispetto, che suscita ne'
petti mortali ed immortali la
maestade quando si presenta; appresso, avendo alquanto bassate le palpebre, e
poco dopo allunate le pupille
in alto, e sgombrato un focoso suspiro dal
petto,
proruppe in questa sentenza:
2 Orazione di Giove. - Non aspettate, o
Dei, che, secondo la mia consuetudine,
v'abbia ad intonar ne l'orecchio con uno artificioso proemio, con un terso filo
di narrazione e con un delettevole agglomeramento epilogale. Non sperate
ornata
tessitura di paroli, ripolita
infilacciata di sentenze, ricco apparato di
eleganti propositi, suntuosa
pompa di elaborati discorsi e, secondo l' instituto
di oratori, concetti posti tre volte a la
lima prima ch'una volta a la lingua:
non hoc. Non hoc ista sibi tempus spectacula poscit.
3 Credetemi, dei, perché credete il vero, già dodici volte
ha ripiene
l' inargentate corna la casta Lucina, ch'io
son stato in la determinazione di far
questa congregazione oggi, in questa ora e con tai termini
che vedete. Ed in
questo mentre son stato più occupato sul considerar quello
che devo a nostro mal
grado tacere, che mi sia stato lecito di premeditar
sopra quello che debbo dire.
4 Odo che vi maravigliate, perché a questo
tempo, rivocandovi da vostro spasso,
v'abbia fatto citar alla congregazione e
dopo pranso a subitanio concilio. Vi
sento mormorare, che in
giorno festivo vi vien tocco il core di cose seriose, e
non è di voi chi a la voce de la tromba e
proposito de l'editto non sia turbato.
Ma io, benché la raggione di queste azioni e circostanze
pende dal mio volere
che l'ha possute instituire, e la mia
voluntà e decreto sia l'istessa raggione
de la giustizia, tutta volta non voglio mancar, prima che
proceda ad altro, di
liberarvi da questa confusione e maraviglia.
Tardi, dico, gravi e pesati denno
essere gli proponimenti; maturo, secreto e
cauto deve essere il conseglio: ma
l'essecuzione bisogna che sia alata, veloce e presta. Però
non credete, che
intra il desinare qualche strano umore
m'abbia talmente assalito che, dopo
pranso, mi tegna legato e vinto, onde non a posta di
raggione, ma per impeto di
nettareo fumo proceda a l'azione; ma dal
medesimo giorno de l'anno passato
cominciai a consultar entro di me quel
tanto che dovevo esseguire in questo
giorno ed ora. Dopo pranso, dunque, perché le nove triste
non è costume
d' apportarle a stomaco diggiuno;
all'improviso, perché so molto bene che non
cossì come alla festa solete convenir
volentieri al conseglio, il quale è
intensissimamente da molti di voi fuggito: mentre chi lo teme per non farsi di
nemici, chi per incertezza di chi vince e
di chi perde, chi per timore ch'il suo
conseglio non sia tra dispreggiati, chi per dispetto per
quel che il suo parere
tal volta non è stato approvato, chi per mostrarsi neutrale nelle cause
pregiudiciose o de l'una o de l'altra
parte, chi per non aver occasione
d' aggravarsi la conscienza: chi per una,
chi per un'altra causa.
5 Or vi ricordo, o fratelli e figli, che a quelli, ai
quali il fato ha dato di
posser gustare l'ambrosia e bevere il
nettare e goder il grado della maestade, è
ingionto ancora di comportar tutte gravezze
che quella apporta seco. Il diadema,
la mitra, la corona, senza aggravarla, non onorano la testa; il manto regale ed
il scettro non adornano senza impacciar il
corpo. Volete sapere perché io a ciò
abbia impiegato il giorno di festa, e specialmente tale
quale è la presente?
Pare a voi, dunque, pare a voi che sia degno giorno di
festa questo? E credete
voi che questo non deve essere il più tragico giorno di
tutto l'anno? Chi di
voi, dopo ch'arrà ben pensato, non giudicarà cosa vituperosissima di celebrar la
commemorazion de la vittoria contra gli giganti a tempo
che da gli sorgi de la
terra siamo dispreggiati e vilipesi? Oh che avesse
piaciuto a l'omnipotente
irrefragabil fato, che allora fussemo
stati discacciati dal cielo, quando la
nostra rotta per la dignità e virtù di nemici non era
vituperosa tanto; perché
oggi siamo nel cielo peggio che se non vi fussemo, peggio
che se ne fussemo
stati discacciati, atteso che quel timor di noi, che ne rendea tanto gloriosi, è
spento; la gran riputazione de la maestà,
providenza e giustizia nostra è cassa;
e quel che è peggio, non abbiamo facultà e forza di
riparar al nostro male, di
vendicar le nostre onte; perché la
giustizia con la quale il fato governa gli
governatori del mondo, ne ha a fatto tolta quella autorità
e potestà la quale
abbiamo tanto male adoperata, discoperti e nudati avanti gli occhi di mortali e
fattigli manifesti i nostri vituperii;
e fa che il cielo medesimo con cossì
chiara evidenza, come chiare ed evidenti
son le stelle, renda testimonianza de
misfatti nostri. Perché vi si vedeno aperto
gli frutti, le reliquie, gli
riporti, le voci, le scritture, le istorie
di nostri adulterii, incesti,
fornicazioni, ire, sdegni,
rapine ed altre iniquitadi e delitti; e che per
premio di errori abbiamo fatto maggiori errori, inalzando al cielo i trionfi de
vizii e sedie de sceleragini, lasciando
bandite, sepolte e neglette ne l'inferno
le virtudi e la giustizia.
6 E per cominciare da cose minori, come
da peccati veniali: perché solo il
Deltaton, dico quel triangolo, ha ottenute
quattro stelle appresso il capo di
Medusa, sotto le natiche di Andromeda e sopra le corna del
Montone? per far
vedere la parzialità, che si trova tra gli dei. Che fa il
Delfino, gionto al
Capricorno da la parte settentrionale, impadronito
di quindeci stelle? vi è, a
fine che si possa contemplar la assumpzione di colui, che
è stato buon sanzale,
per non dir ruffiano, tra Nettuno ed Amfitrite. Perché le sette figlie d'Atlante
soprasiedeno appresso il collo del bianco
Toro? per essersi, con lesa maestà di
noi altri dei, vantato il padre di aver sostenuti noi ed il cielo ruinante; o
pur per aver in che mostrar la sua leggerezza i numi, che
vi l'han condotte.
Perché Giunone ha ornato il Granchio di nove stelle, senza
le quattro altre
circonstanti che non fanno imagine? solo per un capriccio,
perché forficò il
tallone ad Alcide a tempo che combatteva con quel gigantone. Chi mi saprà dar
altra caggione che il semplice ed irrazional
decreto de' superi, perché il
Serpentauro, detto da noi Greci Ofiulco, ottiene con la
sua colobrina il campo
di trentasei stelle? Qual grave ed opportuna
caggione fa al Sagittario usurparsi
trenta ed una stella? perché fu figlio di Euschemia,
la quale fu nutriccia o
baila de le Muse. Perché non più tosto a
la madre? perché lui oltre seppe
ballare e far i giuochi de le bagattelle. Aquario perché
ha quaranta cinque
stelle appresso il Capricorno? forse, perché salvò
la figlia di Venere Facete
nel stagno? Perché non altri, a gli quali
noi dei siamo tanto ubligati, che sono
sepolti in terra, ma più tosto costui,
ch'ha fatto un serviggio indegno di tanta
ricompensa, è stato conceduto quel spacio?
perché cossì ha piaciuto a Venere.
7 Gli Pesci, benché meritino qualche
mercede per aver dal fiume Eufrate cacciato
quell'ovo, che, covato da la colomba, ischiuse la
misericordia de la dea di
Pafo, tutta volta paionvi soggetti d' ottenir l'ornamento di trentaquattro
stelle, senza altre quattro circostanti, ed
abitare fuor de l'acqui nella region
più nobile del cielo? Che fa Orione, tutto armato
a scrimir solo, con le
spalancate braccia, impiastrato di trent'otto stelle, ne la latitudine australe
verso il Tauro? vi sta per semplice capriccio di Nettuno,
a cui non ha bastato
di privilegiarlo su l'acqui, dove ha il
suo legitimo imperio; ma oltre, fuor del
suo patrimonio, si vuol con sì poco
proposito prevalere. La Lepre, il Cane e la
Cagnolina sapete ch'hanno quarantatré
stelle ne la parte meridionale, non per
altro, che per due o tre frascarie non
minori che quella, che vi fa essere
appresso la Idra, la Tassa ed il Corvo,
che ottegnono quarant'ed una stella, per
memoria di quel, che mandâro una volta gli
dei il Corvo a prender l'acqua da
bere; il qual per il camino vedde un fico,
ch'avea le fiche o gli fichi (perché
l'uno e l'altro geno è approvato da grammatici, dite come
vi piace): per gola
quell'ucello aspettò che fussero maturi,
de quali al fine essendosi pasciuto, si
ricordò de l'acqua; andò per empir
la lancella, veddevi il dragone,
abbe paura,
e ritornò con la giarra vota
agli dei. Li quali, per far chiaro quanto hanno ben
impiegato l'ingegno ed il pensiero, hanno descritta
in cielo questa istoria di
sì gentile ed accomodato servitore. Vedete quanto bene abbiamo
speso il tempo,
l' inchiostro e la carta.
La Corona austrina, che sotto l'arco e piedi di
Sagittario si vede ornata di tredeci topacii
lucenti, chi l'ha predestinata ad
essere eternamente senza testa? Che bel vedere volete voi
che sia di quel pesce
Nozio, sotto gli piedi d'Aquario e
Capricorno, distinto in dodici lumi, con sei
altri che gli sono in circa? De l'Altare, o turribulo
o fano o sacrario, come
vogliam dire, io non parlo; perché giamai
li convenne cossì bene d'essere in
cielo, se non ora, che quasi non ha dove essere in terra;
ora vi sta bene, come
una reliquia, o pur come una tavola della sommersa nave de
la religion e colto
di noi.
8 Del Capricorno non dico nulla, perché mi par dignissimo d'ottenere il cielo,
per averne fatto tanto beneficio, insegnandoci
la ricetta, con cui potessimo
vencere il Pitone; perché bisognava, che gli dei si trasformassero in bestie, se
volevano aver onor di quella guerra: e ne ha donata
dottrina, facendoci sapere
che non si può mantener superiore chi non si sa far bestia.
Non parlo de la
Vergine; perché, per conservar la sua verginità, in nessun
loco sta sicura se
non in cielo, avendo da qua un Leone e da là un Scorpione
per sua guardia. La
poverina è fuggita da terra, perché l' eccessiva
libidine de le donne, le quali,
quanto più son pregne, tanto più sogliono appetere il coito, fa che non sia
sicura di non esser contaminata, anco se
si trovasse nel ventre de la madre;
però goda i suoi vintisei carbuncoli con
quelli altri sei, che li sono attorno.
Circa l'intemerata maestà di que' doi Asini che luceno nel spacio di Cancro, non
oso dire, perché di questi massimamente
per dritto e per raggione è il regno del
cielo: come con molte efficacissime
raggioni altre volte mi propono di
mostrarvi, perché di tanta materia non ardisco parlare per modo di passaggio. Ma
di questo sol mi doglio e mi lamento
assai, che questi divini animali sieno
stati sì avaramente trattati, non
facendogli essere, come in casa propria, ma
nell' ospizio di quel retrogrado animale aquatico, e non munerandoli più che de
la miseria di due stelle, donandone
una a l'uno e l'altra all'altro; e quelle
non maggiori che de la quarta grandezza.
9 De l'Altare, dunque, Capricorno, Vergine ed Asini
(benché prendo a dispiacere
ch'ad alcuni di questi non essendo lor trattati secondo la
dignità, in loco di
essere fatto onore, forse gli è stato fatta ingiuria) or
al presente non voglio
definir cosa alcuna; ma torno a gli altri suppositi, che vanno per la medesima
bilancia con gli sopradetti.
10 Non volete voi che murmurino gli altri
fiumi, che sono in terra, per il torto
che gli vien fatto? Atteso che, qual raggion vuole che più
tosto l'Eridano deve
aver le sue trenta e quattro lucciole, che
si veggono citra ed oltre il tropico
di Capricorno, più tosto che tanti altri non meno degni e
grandi, ed altri più
degni e maggiori? Pensate che basta dire che le sorelle di
Fetone v'abbiano la
stanza? O forse volete che vegna celebrato, perché ivi per
mia mano cadde il
fulminato figlio d'Apollo, per aver il
padre abusato del suo ufficio, grado ed
autoritade? Perché il cavallo di Bellerofonte
è montato ad investirsi de vinti
stelle in cielo, essendo che sta sepolto in terra il suo cavalcatore? A che
proposito quella saetta, che per il splendor di cinque
stelle, che tiene
inchiodate, luce prossima a l'Aquila e Delfino? Certo, che
se gli fa gran torto
che non stia vicina al Sagittario a fin che se ne possa
servire, quando arrà
tirato quella che tiene in punta; o pur non appaia in
parte dove possa rendere
qualche raggion di sé. Apresso bramo intendere, tra il spoglio del Leone e la
testa di quel bianco e dolce Cigno, che fa quella lira
fatta di corna di bue in
forma di testugine? Vorrei sapere, se la vi dimore
per onor de la testugine, o
de le corna, o de la lira, o pur perché ognun veda la mastria di Mercurio che
l'ha fatta, per testimonio de la sua dissoluta
e vana iattanzia?
11 Ecco, o dei, l'opre nostre; ecco le egregie nostre manifatture, con le quali
ne rendemo onorati al cielo! Vedete che
belle fabriche, non molto dissimili a
quelle che sogliono far gli fanciulli, quando contrattano
la luta, la pasta, le
miscuglie, le frasche e festuche,
tentando d' imitare l'opre di maggiori!
Pensate, che non doviamo render raggione e
conto di queste? Possete persuadervi,
chede l'opre ociose sarremo
meno richiesti, interrogati, giudicati e
condannati,
che dell'ociose paroli? La dea Giustizia, la dea
Temperanza, la dea Constanza,
la dea Liberalitade, la dea Pazienza, la dea Veritade, la
dea Mnemosine, la dea
Sofia e tante altre dee e dei vanno banditi non solo dal
cielo, ma ed oltre da
la terra; ed in loco loro e ne gli eminenti palaggi, edificati da l'alta
Providenza per residenza loro, vi si veggono delfini,
capre, corvi, serpenti ed
altre sporcarie, levitadi, capricci
e legerezze. Se vi par questa cosa
inconveniente, e ne tocca il rimorso de la conscienza per
il bene che non abbiam
fatto; quanto più dovete meco considerare
che doviamo esser punti e trafitti per
le gravissime sceleraggini
e delitti, che comessi avendono, non
solamente non ne
siamo ripentiti ed emendati,
ma oltre ne abbiamo celebrati triomfi e drizzati
come trofei, non in un fano labile e ruinoso, non in tempio terrestre, ma nel
cielo e nelle stelle eterne. Si può patire, o dei, e
facilmente si condona a gli
errori, che son per fragilità, e per non
molto giudiciosa levità; ma qual
misericordia, qual pietate può rivoltarsi a quelli, che son commessi da color
che, essendono posti presidenti nella giustizia, in
mercede di criminalissimi
errori, contribuiscono maggiori errori con
onorare, premiar ed essaltar al cielo
gli delitti insieme con gli delinquenti? Per qual grande e
virtuoso fatto Perseo
av'ottenute vintesei stelle? Per aver con
gli talari e scudo di cristallo, che
lo rendeva invisibile, in serviggio de l' infuriata Minerva ammazzate le Gorgoni
che dormivano, e presentatogli
il capo di Medusa. E non ha bastato che vi fusse
lui, ma per lunga e celebre memoria bisognava che vi
comparisse la moglie
Andromeda con le sue vintitré, il suo genero Cefeo con le sue tredeci, che
espose la figlia innocente alla bocca del Ceto per
capriccio di Nettuno, adirato
solamente perché la sua madre Cassiopea pensava
essere più bella che le Nereidi.
E però anco la madre vi si vede residente
in catedra, ornata di tredeci altre
stelle ne' confini de l' Artico circolo.
Quel padre di agnelli con la lana d'oro,
con le sue diece ed otto stelle senza l'altre sette
circonstanti, che fa balando
sul punto equinoziale? E forse ivi per predicar
la pazzia e sciocchezza del re
di Colchi, l'impudicizia di Medea, la
libidinosa temeritade di Giasone e
l'iniqua providenza di noi altri? Que' doi fanciulli, che
nel signifero
succedeno al Toro, compresi da diece e otto stelle, senza
altre sette
circonstanti informi, che mostrano di buono o di bello in
quella sacra sedia,
eccetto che il reciproco amore di doi bardassi? Per qual raggione il Scorpione
ottiene il premio di venti ed una stelle, senza le otto
che son ne le chele, e
le nove che sono circa lui, e tre altre informi? Per
premio d'un omicidio
ordinato dalla leggerezza ed invidia di Diana, che gli
fece uccidere l' emulo
cacciator Orione. Sapete bene che Chirone
con la sua bestia ottiene nella
australe latitudine del cielo sessanta e sei stelle per
esser stato pedante di
quel figlio, che nacque dal stupro di Peleo
e.Teti.
12 Sapete che la corona di Ariadna, nella
quale risplendeno otto stelle, ed è
celebrata là, avanti il petto di Boote e le spire de l' angue, non v'è se non in
commemorazione perpetua del disordinato
amor del padre Libero, che s' imbracciò
la figlia del re di Creta, rigettata dal
suo stuprator Teseo.
13 Quel Leone, che nel core porta il basilisco,
e che ottiene il campo di trenta
e cinque stelle, che fa continuo al Cancro? Evi forse per
esser gionto a quel
suo conmilitone e suo conservo
de l' irata Giunone, che lo apparecchiò vastatore
del Cleoneo paese, a fine che, a mal grado di quello, aspetasse l'advenimento
del strenuo Alcide? Ercole invitto, laborioso mio figlio,
che col suo spoglio di
leone e la sua mazza par che si difenda le
vinti ed otto stelle, quali con più
che mai altri abbia fatto tanti gesti eroici s'ha meritate, pure, a dire il
vero, non mi par conveniente che tegna quel loco, onde il
suo geno pone avanti
gli occhi della giustizia il torto fatto al nodo
coniugale della mia Giunone per
me e per la pellice Megara,
madre di lui. La nave di Argo, nella quale sono
inchiodate quarantacinque risplendenti
stelle, ne l'ampio spacio vicino al
circolo Antartico, evi ad altro fine che
per eternizare la memoria del grande
errore che commese la saggia Minerva, che
mediante quella instituì gli primi
pirati a fine che, non meno che la terra,
avesse gli suoi solleciti predatori il
mare? E per tornar là dove s'intende la
cintura del cielo, perché quel Bove,
verso il principio del zodiaco, ottiene
trenta e due chiare stelle, senza quella
ch'è nella punta del corno settentrionale, ed undeci altre
che son chiamate
informi? Per ciò che è quel Giove (oimè!) che rubbò
la figlia ad Agenore, la
sorella a Cadmo. Che Aquila è quella che
nel firmamento s' usurpa l'atrio di
quindeci stelle, oltre Sagittario, verso il polo? Lasso, è
quel Giove che ivi
celebra il trionfo del rapito Ganimede e di quelle vittoriose fiamme ed amori.
Quella Orsa, quella Orsa, o dei, perché nella più bella ed
eminente parte del
mondo, come in una alta specola, come in una più aprica piazza e più celebre
spettacolo, che ne l'universo presentar si
possa a gli occhi nostri, è stata
messa? Forse a fine che non sia occhio, che non veda
l'incendio ch' assalse il
padre de gli dei appresso l'incendio de la terra per il
carro di Fetonte, quando
in quel mentre ch' andavo guardando le ruine di quel fuoco, e riparando a quelle
con richiamare i fiumi che timidi e fugaci erano ristretti a le caverne, e ciò
effettuando nel mio diletto Arcadio
paese: ecco, altro fuoco m'accese il petto,
che dal splendor del volto de la vergine Nonacrina
procedendo, passommi per gli
occhi, scorsemi nel core, scaldommi
l'ossa e penetrommi dentro le midolla; di
sorte che non fu acqua né remedio che
potesse dar soccorso e refrigerio
all'incendio mio. In questo foco fu il strale
che mi trafisse il core, il laccio
che mi legò l'alma, e l' artiglio
che mi tolse a me e diemmi in preda
alla beltà
di lei. Commesi il sacrilego stupro, violai la compagnia di Diana e fui a la mia
fidelissima consorte ingiurioso; per la quale
in forma e specie d'una Orsa
presentandomise la bruttura
del fedo eccesso mio, tanto si manca che da quella
abominevol vista io concepesse orrore, che sì bello mi parve quel medesimo
mostro e sì mi soprapiacque, che volsi
ch'il suo vivo ritratto fusse essaltato
nel più alto e magnifico sito de
l'architetto del cielo: quell'errore, quella
bruttezza, quell'orribil macchia che sdegna ed abomina
lavar l'acqua de
l'Oceano, che Teti, per tema di contaminar
l'onde sue, non vuol che punto
s'avicine verso la sua stanza, Dictinna
l'ha vietato l' ingresso di suoi deserti
per tema di profanar il sacro suo
collegio, e per la medesima caggione gli
niegano i fiumi le Nereidi e Ninfe.
14 Io, misero peccatore,
dico la mia colpa, dico la mia gravissima colpa, in
conspetto de l'intemerata absoluta giustizia, e vostro,
che sin al presente ho
molto gravemente peccato, e per il mal
essempio ho porgiuta ancor a voi
permissione e facultà di far il simile; e con questo confesso che degnamente io
insieme con voi siamo incorsi il sdegno del fato, che non
ne fa più essere
riconosciuti per dei, e mentre abbiamo a
le sporcarie de la terra conceduto il
cielo, ha dispensato ch'a noi fussero cassi gli tempii,
imagini e statue,
ch'avevamo in terra; a fine che degnamente da alto vegnano
depressi quelli,
quali indegnamente han messe in alto le cose vili e basse.
15 Oimè, dei, che facciamo? che pensiamo? che induggiamo?
Abbiamo prevaricato,
siamo stati perseveranti ne gli errori, e
veggiamo la pena gionta e continuata
con l'errore. Provedemo, dunque, provedemo a' casi nostri;
perché, come il fato
ne ha negato il non posser cadere, cossì
ne ha conceduto il possere risorgere;
però come siamo stati pronti al cascare, cossì anco siamo
apparecchiati a
rimetterci su gli piedi. Da quella pena
nella quale mediante l'errore siamo
incorsi, e peggior della quale ne potrebe sopravenire, mediante la riparazione,
che sta nelle nostre mani, potremo senza difficultade
uscire. Per la catena de
gli errori siamo avinti; per la mano della
giustizia ne disciogliamo. Dove la
nostra levità ne ha deprimuti, indi
bisogna che la gravità ne inalze.
Convertiamoci alla giustizia, dalla quale
essendo noi allontanati, siamo
allontanati da noi stessi; di sorte che non siamo più dei,
non siamo più noi.
Ritorniamo dunque a quella, se vogliamo
ritornare a noi.
16 L'ordine e maniera di far questo riparamento
è che prima togliamo da le
nostre spalli la grieve soma d'errori che ne trattiene;
rimoviamo d'avanti gli
nostri occhi il velo de la poca considerazione, che ne impaccia; isgombramo dal
core la propria affezione, che ne ritarda;
gittiamo da noi tutti que' vani
pensieri che ne aggravano; adattiamoci
a demolire le machine di errori ed
edificii di perversitade che impediscono
la strada ed occupano il camino;
cassiamo ed annulliamo,
quanto possibil fia, gli trionfi e trofei di nostri
facinorosi gesti, a fine che appaia nel
tribunal della giustizia verace
pentimento di commessi errori. Su, su, o dei, tolgansi
dal cielo queste larve,
statue, figure, imagini, ritratti, processi
ed istorie de nostre avarizie,
libidini, furti, sdegni, dispetti
ed onte. Che passe, che passe questa notte
atra e fosca di nostri errori, perché la vaga aurora del novo giorno de la
giustizia ne invita; e disponiamoci di maniera tale al
sole, ch'è per uscire,
che non ne discuopra cossì come siamo immondi. Bisogna mondare e renderci
belli;
non solamente noi, ma anco le nostre stanze e gli nostri tetti fia mestiero che
sieno puliti e netti: doviamo interiore-
ed esteriormente ripurgarci.
Disponiamoci, dico, prima nel cielo che intellettualmente
è dentro di noi, e poi
in questo sensibile che corporalmente si
presenta a gli occhi. Togliemo via dal
cielo de l'animo nostro l'Orsa della difformità, la Saetta
de la detrazione,
l' Equicolo de la leggerezza, il Cane de la
murmurazione, la Canicola de
l'adulazione. Bandiscasi da noi l'Ercole
de la violenza, la Lira de la
congiurazione, il Triangolo de l'impietà, il Boote de
l'inconstanza, il Cefeo de
la durezza. Lungi da noi il Drago de l'invidia, il Cigno
de l'imprudenza, la
Cassiopea de la vanità, l'Andromeda de la desidia, il
Perseo della vana
sollecitudine. Scacciamo l'Ofiulco de la
maldizione, l'Aquila de l'arroganza, il
Delfino de la libidine, il Cavallo de l' impacienza,
l'Idra de la concupiscenza.
Togliemo da noi il Ceto de l'ingordiggia, l'Orione de la
fierezza, il Fiume de
le superfluitadi, la Gorgone
de l'ignoranza, la Lepre del vano timore. Non ne
sia oltre dentro il petto l' Argonave de
l'avarizia, la Tazza de l' insobrietà, la
Libra de l'iniquità, il Cancro del mal regresso, il
Capricorno de la decepzione.
Non fia che ne s'avicine il Scorpio de la frode, il
Centauro de la animale
affezione, l'Altare de la superstizione, la Corona de la
superbia, il Pesce de
l'indegno silenzio. Con questi caggiano gli Gemini
de la mala familiaritade, il
Toro de la cura di cose basse, l' Ariete de
l'inconsiderazione, il Leone de la
Tirannia, l'Aquario de la dissoluzione, la Vergine de l' infruttuosa
conversazione, il Sagittario de la detrazione. Se cossì, o
dei, purgaremo la
nostra abitazione, se cossì renderemo novo
il nostro cielo, nove saranno le
costellazioni ed influssi, nove
l'impressioni, nove fortune; perché da questo
mondo superiore pende il tutto, e contrarii effetti sono dependenti da cause
contrarie. O felici, o veramente fortunati
noi, se farremo buona colonia del
nostro animo e pensiero! A chi de voi non piace il
presente stato, piaccia il
presente conseglio. Se vogliamo mutar stato, cangiamo
costumi. Se vogliamo che
quello sia buono e megliore, questi non sieno simili o
peggiori. Purghiamo
l'interiore affetto, atteso che da l' informazione
di questo mondo interno non
sarà difficile di far progresso alla riformazione di
questo sensibile ed
esterno. La prima purgazione, o dei, veggio che la fate,
veggio che l'avete
fatta; la vostra determinazione io la veggio; ho vista la
vostra determinazione,
la è fatta; ed è subito fatta, perché la non è soggetta a'
contrapesi del tempo.
17 Or su, procediamo alla seconda purgazione. Questa è
circa l'esterno,
corporeo, sensibile e locato.
Però bisogna che vada con certo discorso,
successione ed ordine; però bisogna aspettare, conferir
una cosa con l'altra,
comparar questa raggione con quella, prima
che determinare; atteso che circa le
cose corporali, come in tempo è la disposizione, cossì non
può essere, come in
uno instante, l'essecuzione. Eccovi dunque il termine di
tre giorni, dove non
avete da decidere e determinare infra di
voi, se questa riforma si debba fare o
non; perché per ordinanza del fato, subito che vi l'ho
proposta, insieme l'avete
giudicata convenientissima, necessaria ed ottima; e non in segno esteriore,
figura ed ombra, ma realmente ed in verità veggio il
vostro affetto, come voi
reciprocamente vedete il mio; e non men
subito ch'io v'ho tocco l'orecchio col
mio proponimento, voi col splendor del consentimento
vostro m'avete tocchi gli
occhi. Resta dunque che pensiate
e conferite infra di voi circa la maniera, con
cui s'ha da provedere a queste cose che si toglieno
dal cielo, per le quali fia
mestiero procacciare ed ordinar altri paesi
e stanze; ed oltre, come s'hanno da
empire queste sedie a fin che il cielo non
rimagna deserto, ma megliormente
colto ed abitato che prima. Passati che
saranno gli tre giorni, verrete
premeditati in mia presenza circa loco per
loco e cosa per cosa, acciò che, non
senza ogni possibile discussione, conveniamo
il quarto giorno a determinare e
pronunziar la forma di questa colonia. Ho
detto.
18 Cossì, o Saulino, il padre Giove toccò
l'orecchio, accese il spirto e
commosse il core del Senato e Popolo celeste, che lui
medesimo apertamente ne'
volti e gesti s' accorse, mentre orava, che nella mente loro era conchiuso e
determinato quel tanto che da lui lor venia
proposto. Avendo dunque fatta la
ultima clausola ed imposto silenzio al suo
dire il gran Patriarca degli dei,
tutti con una voce e con un tuono dissero:
- Molto volentieri, o Giove,
consentemo d'effettuar quel tanto che tu
hai proposto e veramente ha
predestinato il fato. - Qua succese il fremito de la moltitudine, qua apparendo
segno d'una lieta risoluzione, là d'un volenteroso ossequio, qua d'un dubio, là
d'un pensiero, qua un applauso, là un scrollar
di testa di qualche interessato,
ivi una specie di vista, e quivi un'altra, sin tanto che,
gionta l'ora di cena,
chi da questo lato si retirò, e chi da
quell'altro.
19 \ SAUL.\ Cose di non poco momento, o Sofia!
Terza parte del primo Dialogo.
1 \ SOFIA\ Venuto il quarto giorno, ed essendo appunto
l'ora di mezo dì,
convennero di bel novo al conseglio
generale, dove non solamente fu lecito
d'esser presenti gli prefati numi più
principali, ma oltre tutti quelli altri,
ai quali è conceduto, come per lege
naturale, il cielo. Sedente dunque il Senato
e Popolo de gli dei, e con il consueto modo essendo
montato sul solio di safiro
inorato Giove, con quella forma di diadema
e manto con cui solamente ne gli
sollennissimi concilii suol
comparire, rassettato il tutto, messa in punto
d'attenzion la turba, ed inditto alto
silenzio, di maniera che gli congregati
sembravano tante statue o tante pitture; si
presenta in mezzo con gli suoi
ordini, insegna e circonstanze il mio bel nume Mercurio. E
gionto avanti il
conspetto del gran padre, brevemente annunziò,
interpretò ed espose quel che non
era a tutto il conseglio occolto, ma che, per servar
la forma e decoro de
statuti, bisogna pronunziare. Cioè come
gli dei erano pronti ed apparecchiati
senza simulazione e dolo, ma con libera e spontanea
voluntade, ad accettare e
ponere in esecuzione tutto quello che per il presente sinodo verrebe conchiuso,
statuto ed ordinato. Il che avendo detto, si voltò
a gli circonstanti dei, e gli
richiese che con alzar la mano facessero
aperto e ratificato quel tanto ch'in
nome loro aveva esposto in presenza de
l'altitonante. E cossì fu fatto.
2 Appresso apre la bocca il magno
protoparente, e fassi in cotal tenore udire: -
Se gloriosa, o dei, fu la nostra vittoria contra gli
giganti, che in breve
spacio di tempo risorsero contra di noi,
che erano nemici stranieri ed aperti,
che ne combattevano solo da l'Olimpo, e che
non possevano né tentavano altro che
de ne precipitar dal cielo; quanto più gloriosa e degna
sarà quella di noi
stessi, li quali fummo contra lor vittoriosi?
Quanto più degna, dico, e gloriosa
è quella di nostri affetti, che tanto tempo han trionfato di noi, che sono
nemici domestici ed interni che ne tiranneggiano da ogni lato, e che ne hanno
trabalsati e smossi da noi
stessi?
3 Se dunque di festa degno ne ha parso quel
giorno che ne partorì vittoria tale
di quale il frutto in un momento disparve, quanto più
festivo dev'essere questo
di cui la fruttuosa gloria sarà eviterna per gli secoli futuri? Séguite, dunque,
d'essere festivo il giorno de la vittoria; ma da quel che
si diceva de la
vittoria de giganti, dicasi de la vittoria
de gli Dei, perché in esso abbiamo
vinti noi medesimi. Instituiscasi oltre
festivo il giorno presente nel quale si
ripurga il cielo, e questo sia più sollenne
a noi, che abbia mai possuto essere
a gli Egizii la trasmigrazione del popolo leproso, ed a gli Ebrei il transito
dalla Babilonica cattivitade.
Oggi il morbo, la peste, la lepra si bandisce dal
cielo a gli deserti; oggi vien rotta quella catena di
delitti e fracassato il
ceppo de gli errori, che ne ubligano al
castigo eterno. Or dunque, essendo voi
tutti di buona voglia per procedere a questa riforma, ed
avendo, come intendo,
tutti premeditato il modo con cui si debba
e possa venire al fatto; acciò che
queste sedie non rimagnano disabitate, ed
agli trasmigranti sieno ordinati
luoghi convenienti, io cominciarò
a dire il mio parere circa uno per uno; e
prodotto che sarà quello, se vi parrà degno
d'essere approvato, ditelo; se vi
sembrarà inconveniente, esplicatevi;
se vi par che si possa far meglio,
dechiaratelo; se da quello si deve
togliere, dite il vostro parere; se vi par
che vi si deve aggiongere, fatevi intendere;
perché ognuno ha plenaria libertà
di proferire il suo voto; e chiunque tace, se intende affirmare. - Qua assorsero
alquanto tutti gli dei, e con questo segno ratificâro
la proposta.
4 - Per dar, dunque, principio e cominciar
da capo, disse Giove, veggiamo prima
le cose che sono da la parte boreale, e provediamo circa
quelle; e poi a mano a
mano per ordine faremo progresso sin al fine. Dite voi:
che vi pare, e che
giudicate di quella Orsa? - Gli dei, alli quali toccavano
le prime voci,
commesero a Momo che rispondesse;
il qual disse: - Gran vituperio, o Giove, e
più grande che tu medesimo possi riconoscere,
che nel luogo del cielo più
celebre, là dove Pitagora (che intese il
mondo aver le braccia, gambe, busto e
testa) disse essere la parte superior di quello, alla
quale è contraposto
l'altro estremo che dice essere l' infima regione; iuxta quello che cantò un
Poeta di quella setta:
Hic vertex nobis semper sublimis,
at illum
Sub pedibus Styx atra videt manesque profundi:
là dove gli marinaii si consultano
negli devii ed incerti camini del mare, là
verso dove alzano le mani tutti gli travagliati
che patiscono tempeste: là verso
dove ambivano gli giganti: là dove la
generazion fiera di Belo facea montare la
torre di Babelle: là dove gli maghi del
specchio calibeo cercano gli oracoli de
Floron, uno de' grandi principi
de gli arctici spiriti: là dove gli Cabalisti
dicono che Samaele volse inalzare il solio
per farsi assomigliante al primo
altitonante; hai posto questo brutto animalaccio, il
quale, non con una
occhiata, non con un rivoltato
mustaccio, non con qualche imagine di mano, non
con un piede, non con altra meno ignobil
parte del corpo, ma con una coda (che
contra la natura de l'orsina specie volse Giunone che gli rimanesse attaccata
dietro), quasi come un indice degno di tanto luogo, fai
che vegna a mostrar a
tutti terrestri, maritimi e
celesti contemplatori il polo magnifico e cardine
del mondo. Quanto, dunque, facesti male de vi la inficcare, tanto farai bene di
levarnela; e vedi di farne intendere dove la
vuoi mandare, e che cosa vuoi ch'in
suo loco succeda. - Vada, disse Giove, dove a voi altri
pare e piace, o a gli
Orsi d'Inghilterra, o a gli Orsini o Cesarini di Roma, se volete che stia in
città a bell' aggio. - A gli claustri
di Bernesi vorei che la fusse
impriggionata, disse Giunone. - Non tanto
sdegno, mia moglie, replicò Giove;
vada dove si vuole, purché sia libera e lasce
quel loco nel quale, per essere la
sedia più eminente, voglio che faccia la sua residenza la
Veritade; perché là le
unghie de la detrazione non arivano, il livore de l'invidia non avelena, le
tenebre de l'errore non vi profondano. Ivi
starà stabile e ferma; là non sarà
exagitata da flutti e da
tempeste; ivi sarà sicura guida di quelli che vanno
errando per questo tempestoso pelago
d'errori; ed indi si mostrarà chiaro e
terso specchio di contemplazione. -Disse il padre Saturno:
- Che farremo di
quella Orsa maggiore? Propona Momo. - E lui
disse: - Vada, perché la è vecchia,
per donna di compagna di quella minore giovanetta;
e vedete che non gli dovegna
roffiana; il che se accaderà, sia condannata ad servir a qualche mendico, che
con andarla mostrando e con farla cavalcare da fanciulli ed altri simili, per
curar la febre quartana ed
altre picciole infirmitadi, possa guadagnar da vivere
per lui e lei. -Dimanda Marte: - Che farremo di quel
nostro Draggonaccio, o
Giove? - Dica Momo, - rispose il padre. E quello: - La è
una disutile bestia, e
che è meglio morta che viva. Però, se vi pare, mandiamola ne l' Ibernia, o in
un'isola de l' Orcadi a pascere.
Ma guardate bene, ché con la coda è dubio che
non faccia qualche ruina di stelle con farle precipitar in
mare. - Rispose
Apolline: - Non dubitar, o Momo: perché ordinarò
a qualche Circe o Medea, che
con quei versi con gli quali si seppe addormentare
quando era guardiano de le
poma d'oro, adesso di nuovo insoporato sia
trasportato pian pianino in terra. E
non mi par che debba morire, ma si vada mostrando ovunque
è barbara bellezza:
perché le poma d'oro saranno la beltade,
il drago sarà la fierezza, Giasone sarà
l' amante, l' incanto ch' addormenta il drago, sarà che
Non è sì duro cor che
proponendo,
Tempo aspettando, piangendo ed amando,
E talvolta pagando, non si smuova:
Né sì freddo voler, che non si scalde.
5 Che cosa vuoi che succeda al suo luogo, o padre? - La
prudenza, rispose Giove,
la quale deve essere vicina alla Veritade; perché questa
non deve maneggiarsi,
moversi ed adoperarsi
senza quella, e perché l'una senza la compagnia de l'altra
non è possibile che mai profitte o vegna
onorata. - Ben provisto, - dissero i
dei. Soggionse Marte: - Quel Cefeo, quando era re,
malamente seppe menar le
braccia per aggrandir quel regno che la
fortuna gli porse. Ora, non è bene che
qua, in quel modo che fa, spandendo di tal
sorte le braccia ed allargando i
passi, si faccia cossì la piazza grande in cielo. - È
bene, dunque, disse Giove,
che se gli dia da bere l'acqua di Lete, a fin che si dismentiche, ponendo in
oblio la terrena e celeste possessione, e rinasca
un animale che non abbia né
gambe né braccia. - Cossì deve essere, soggionsero
li dei: ma che in loco suo
succeda la Sofia, perché la poverina deve anch'ella participar de gli frutti e
fortune de la Veritade, sua indissociabile
compagna, con la quale sempre ha
comunicato nelle angustie, afflizioni,
ingiurie e fatiche; oltre che, se non è
costei che li coadministre, non so come
ella potrà essere mai gradita ed
onorata. - Molto volentieri, disse Giove, lo accordo, e vi
consento o Dei;
perché ogni ordine e raggione il vuole; e massime, perché
malamente crederei
aver reposta quella nel suo luogo senza
questa, ed ivi non si potrebe trovar
contenta, lontana della sua tanto amata sorella e diletta
compagna.
6 - De l' Arctofilace, disse Diana, che, sì
ben smaltato di stelle, guida il
carro, che credi, Momo, che si debba fare? - Rispose: -
Per esser lui quel
Arcade, frutto di quel sacrilego ventre, e
quel generoso parto che rende
testimonio ancora de gli orrendi furti del gran padre
nostro, deve partirsi da
qua: or provedete voi de la sua
abitazione. -Disse Apolline: - Per esser figlio
di Calisto, séguite la madre! - Soggionse Diana: - E
perché fu cacciatore
d'orsi, séguite la madre, con questo che non gli ficchi qualche punta di
partesana adosso. -
Aggiunse Mercurio: - E perché vedete, che non sa far altro
camino, vada pur sempre guardando la madre, la quale se ne
devria ritornare
all' Erimantide selve. -
Cossì sarà meglio, disse Giove: e perché la meschina fu
violata per forza, io voglio riparar al
suo danno, da quel loco rimettendola, se
cossì piace a Giunone ancora, nella sua pristina
bella figura. - Mi contento,
disse Giunone, quando prima l' arrete rimessa nel grado della sua verginità, e
per consequenza in grazia de Diana. - Non parliamo più di
questo per ora, disse
Giove; ma veggiamo che cosa vogliamo far succedere al
luogo di costui. - Dopo
fatte molte e molte discussioni: - Ivi, sentenziò Giove,
succeda la Legge,
perché questa ancora è necessario che sia in cielo, atteso
che cossì questa è
figlia della Sofia celeste e divina, come quell'altra è
figlia de l'inferiore,
in cui questa Dea manda il suo influsso ed
irradia il splendor del proprio lume,
in quel mentre che va per gli deserti e luoghi solitarii de la terra. - Ben
disposto, o Giove, disse Pallade; perché non è vera, né
buona legge quella che
non ha per madre la Sofia, e per padre l'intelletto
razionale; e però là questa
figlia non deve star lungi da la sua madre; ed a fin che
da basso contempleno
gli uomini come le cose denno essere ordinate appreso
loro, si proveda qua in
questa maniera, se cossì piace a Giove. Appresso séguita
la sedia della corona
Boreale, fatta di safiro, arrichita di
tanti lucidi diamanti, e che fa quella
bellissima prospettiva con quattro e
quattro, che son otto, carbuncoli ardenti.
Questa, per esser cosa fatta a basso, trasportata
da basso, mi par molto degna
d'esser presentata a qualche eroico prencipe, che non ne
sia indegno; però veda
il nostro padre, a chi manco meno indegnamente deve essere
presentata da noi. -
Rimagna in cielo, rispose Giove, aspettando il tempo, in
cui devrà essere donata
in premio a quel futuro invitto braccio, che con la mazza
ed il fuoco riportarà
la tanto bramata quiete alla misera ed
infelice Europa, fiaccando gli tanti capi
di questo peggio che Lerneo mostro, che
con moltiforme eresia sparge il fatal
veleno, che a troppo lunghi passi serpe per ogni parte per
le vene di quella. -
Aggiunse Momo: - Bastarà che done fine a
quella poltronesca setta di pedanti,
che senza ben fare secondo la legge divina e naturale, si
stimano e vogliono
essere stimati religiosi grati a' dei, e dicono che il far
bene è bene, il far
male è male; ma non per ben che si faccia o mal che non si
faccia, si viene ad
essere degno e grato a' dei; ma per sperare
e credere secondo il catechismo
loro. Vedete, dei, se si trovò mai ribaldaria più aperta
di questa, che da quei
soli non è vista, li quali non veggon nulla.
7 - Certo, disse Mercurio, colui che non conosce nulla
forfantaria, non conosce
questa ch'è la madre di tutte. Quando Giove istesso e
tutti noi insieme
proponessimo tal patto a
gli uomini, deremmo essere più abominati che
la morte,
come quei che, in grandissimo pregiudizio del convitto
umano, non siamo
solleciti d'altro, che della vana gloria nostra. - Il
peggio è, disse Momo, che
ne infamano, dicendo che questa è
instituzione de superi; e con questo che
biasmano gli effetti e frutti, nominandoli ancor con titulo di defetti
e vizii.
Mentre nessuno opera per essi, ed essi operano per nessuno (perché non fanno
altra opra che dir male de l'opre), tra tanto vivono
de l'opre di quelli
ch'hanno operato per altri che per essi, e
che per altri hanno instituiti
tempii, capelle, xeni,
ospitali, collegii ed universitadi; onde sono aperti
ladroni ed occupatori di beni ereditarii
d'altri; li quali, se non son perfetti,
né cossì buoni, come denno, non saranno però (come sono
essi) perversi e
perniciosi al mondo; ma più tosto necessarii alla
republica, periti ne le
scienze speculative, studiosi de la moralitade, solleciti circa l' aumentar il
zelo e la cura di giovar l'un l'altro, e
mantener il convitto (a cui sono
ordinate tutte leggi), proponendo certi premii a' benefattori, e minacciando
certi castighi a' delinquenti. Oltre, mentre dicono ogni
lor cura essere circa
cose invisibili, le quali né essi, né altri mai intesero, dicono ch'alla
consecuzion di quelle basta il solo
destino, il quale è immutabile, mediante
certi affetti interiori e fantasie, de quali massimamente
gli dei si pascano. -
Però, disse Mercurio, non gli deve dar fastidio, né eccitar il zelo, che alcuni
credeno le opere essere necessarie; perché tanto il
destino di quelli, quanto il
destino loro che credeno il contrario, è prefisso, e non
si cangia perché il lor
credere o non credere si cangie, e sia
d'una ed un'altra maniera. E per la
medesima caggione essi non denno essere molesti a color
che non gli credeno, e
che le stimano sceleratissimi; perché non
per questo che gli vegnono a credere e
stimarli uomini da bene, cangiaranno
destino. Oltre che, secondo la lor
dottrina, non è in libertà de l' elezion
loro di mutarsi a questa fede. Ma gli
altri che credeno il contrario, possono giuridicamente,
secondo la lor
conscienza, non solamente essere a lor molesti; ma, oltre,
stimar gran
sacrificio a gli dei e beneficio al mondo di perseguitarli,
ammazzarle e
spengerli da la terra, perché son peggiori
che li bruchi e le locuste sterili e
quelle arpie le quali non opravano nulla di buono, ma
solamente que' beni che
non posseano vorare, strapazzavano
ed insporcavano con gli piedi, e faceano
impedimento a quei che s' esercitavano..
8 - Tutti quei, ch'hanno giudicio naturale, disse
Apolline, giudicano le leggi
buone, perché hanno per scopo la prattica; e quelle in
comparazione son
megliori, che donano meglior occasione a meglior prattica:
perché de tutte leggi
altre son state donate da noi, altre finte
da gli uomini, massime per il comodo
de l'umana vita; e per ciò che alcuni non veggono il
frutto de lor meriti in
quella vita, però gli vien promesso e
posto avanti gli occhi de l'altra vita il
bene e male, premio e castigo, secondo le lor opre. De
tutti quanti, dunque, che
diversamente credeno ed insegnano, disse Apollo, questi
soli son meritevoli
d'esser perseguitati dal cielo e da la
terra, ed esterminati come peste del
mondo, e non son più degni di misericordia che gli lupi,
orsi e serpenti, nel
spenger de quali consiste opra meritoria e degna: anzi tanto incomparabilmente
meritarà più chi le toglierà, quanto
pestilenza e ruina maggiore apportano
questi che quelli. Però ben specificò
Momo, che la Corona australe a colui
massime si deve, il quale è disposto dal fato a togliere
questa fetida sporcaria
del mondo.
9 - Bene, disse Giove, cossì voglio, cossì determino, che
sia dispensata questa
corona, come raggionevolmente Mercurio, Momo ed Apolline
hanno proposto, e voi
altri consentite. Questa pestilenza, per
essere cosa violenta e contra ogni
legge e natura, certo non potrà molto durare;
come possete accorgervi, ch'hanno
costoro il lor destino o fato nemicissimo,
perché mai crebbe il numero di
questi, se non a fine di far più numerosa
ruina. - È ben degno premio, disse
Saturno, la corona per colui, che le toglierà via; ma a
questi perversi è
picciola ed improporzionata pena, che
sieno solamente spenti dalla conversazion
de gli uomini: però mi par oltre giusto che, lasciato
ch' aranno quel corpo,
appresso, per molti lustri e per più
centinaia d'anni, da corpo in corpo
trasmigrando per diverse vice
e volte, se ne vadano ad abitar in porci, che sono
gli più poltroni animali del mondo, o vero sieno ostreche marine attaccate ai
scogli.
10 - La giustizia, disse Mercurio, vuole il contrario. Mi
par giusto, che per
pena de l'ocio sia data la fatica. Però sarà meglio, che
vadano in asini, dove
ritegnano la ignoranza e si dispogliano
de l'ocio; ed in quel supposito, in
mercé di continuo lavore, abbiano poco fieno
e paglia per cibo, e molte
bastonate per guidardone. - Questo parere
approvâro tutti gli Dei insieme.
Allora sentenziò Giove, che la corona sia eterna di colui
che gli arà donata
l'ultima scossa; ed essi per tremilia anni
da asini sempre vadano migrando in
asini. Sentenziò oltre, che in loco di quella corona
particolare succedesse la
ideale e comunicabile in infinito, perché
da quella possano essere suscitate
infinite corone, come da una lampade
accesa senza sua diminuzione, e senza
scemarsi punto di virtude ed efficacia,
se ne accendeno infinite altre. Con la
qual corona intese che fusse aggionta la
spada ideale, la quale similmente ha
più vero essere che qualsivoglia particolare, sussistente
infra gli limiti delle
naturali operazioni. Per la qual spada e corona intende
Giove il giudicio
universale, per cui nel mondo ogniuno vegna premiato
e castigato, secondo la
misura de gli meriti e delitti. Approvâro molto questa
provisione tutti gli dei,
per quel che conviene che alla Legge abbia la sedia vicina
il Giudicio, perché
questo si deve governar per quella, e quella deve
esercitarsi per questo; questo
deve esseguire, e quella dettare; in
quella ha da consistere tutta la teoria, in
11 Dopo fatti molti discorsi e digressioni
in proposito di questa sedia, mostrò
Momo a Giove Ercole, e gli disse: - Or, che faremo di
questo tuo bastardo? -
Avete udito, dei, rispose Giove, la caggione per la quale
il mio Ercole deve
andarsene con gli altri altrove. Ma non
voglio che la sua andata sia simile a
quella de tutti gli altri; perché la causa, modo e
raggione de la sua
assumpzione è stata molto dissimile, per ciò che solo e singularmente per le
virtudi e meriti de gli gesti eroici s'ha meritato
il cielo; e benché spurio,
degno però di essere legitimo figlio di Giove s'è
dimostrato. E vedete aperto,
che solo la causa de l'essere adventizio,
e non naturalmente dio, fa che li sia
negato il cielo; ed è il mio, non suo errore quello che
per lui io vegno, come è
stato detto, notato. E credo, che vi rimorda
la conscienza; ché se uno da quella
regola e determinazion generale devesse
essere eccettuato, questo solo derrebe
essere Ercole. Però, se lo togliemo da qua e lo mandamo in terra, facciamo che
non sia senza suo onore e riputazione, la quale non sia
minore che se
continuasse in cielo. -Assorsero molti,
dico, la più gran parte de gli dei, e
dissero: - Con maggiore, se maggior si puote. -
Instituisco, dunque, Giove
soggionse, che con questa occasione a costui, come a
persona operosa e forte,
sia donata tal commissione e cura, per quale si faccia dio
terrestre, talmente
grande, che vegna da tutti stimato maggior che quando era autenticato per
celeste semideo. - Risposero que' medesimi: - Cossì sia. -
E perché alcuni de
quegli né erano assorti allora, né
parlavano adesso, si converse Giove a loro, e
gli disse, che ancor essi si facessero intendere. Però di
quelli alcuni dissero:
Probamus; - altri dissero: Admittimus.
-Disse Giunone: Non refragamur. - Indi si
mosse Giove a proferir il
decreto in questa forma: - Per causa che in luoghi de
la terra in questi tempi si scuoprono de
mostri, se non tali quali erano a'
tempi de gli antichi cultori di quella,
forse peggiori; io, Giove, padre e
proveditor generale, instituisco, che, se
non con simile o maggior mole di
corpo, dotato però ed inricchito
di maggior vigilanza, di sollecitudine, vigor
d'ingegno ed efficacia di spirto, vada Ercole, come mio
luogotenente e ministro
del mio potente braccio, in terra; e come vi si mostrò
grande prima, quando fu
nato e parturito in quella, con aver superati
e vinti tanti fieri mostri; e
secondo, quando rivenne a quella vittorioso da l'inferno, apparendo insperato
consolator de gli amici, ed inaspettato
vendicator de gli oltragiosi tiranni;
cossì, al presente, qual nuovo e tanto necessario e bramato proveditore, vegna
la terza volta visto da la madre; e discorrendo per gli
tenimenti di quella,
veda se di bel nuovo per le cittadi Arcadiche
vada dissipando qualche Nemeo
leone; se il Cleoneo di nuovo appaia in Tessaglia.
Guarde se quell'idra, quella
peste di Lerne, sia risuscitata
a prendere le sue teste rigermoglianti. Scorga
se ne la Tracia sia di nuovo risorto quel Diomede, e chi de sangue de peregrini
pascea ne l' Ebro gli
cavalli. Volte l'occhio a la Libia, se forse quell' Anteo,
che tante volte ripigliava il spirto,
abbia pur una volta ripigliato il corpo.
Considere se nel regno Ibero è qualche tricorporeo Gerione. Alze il
capo e veda
se per l'aria a questo tempo volano le perniciosissime Stinfalidi: dico, se
volano quelle Arpie che talvolta soleano annuvolar
l'aria ed impedir l'aspetto
de gli astri luminosi. Guate se qualch' ispido cinghiale va spasseggiando per gli
Erimantici deserti. Se s' incontrasse
a qualche toro, non dissimile a quello che
donava orrido spavento a
tanti popoli; se bisognasse far uscir a l'aria aperto
qualche triforme Cerbero
che latre, a fin che vomisca l' aconito
mortifero; se
circa gli crudi altari versa qualche
carnefice Busire; se qualche cerva, che di
dorate corna adorna il
capo, appare per que' deserti, simile a quella che con
gli piedi di bronzo correa veloce, pari al
vento; se qualche nova regina
Amazonia ha congregate le
copie rubelle; se qualche infido e vario Acheloo con
inconstante, moltiforme e vario aspetto tiranneggia in qualche parte; se sono
Esperidi ch'in guardia del drago han
commese le poma d'oro; se di nuovo appare
la celibe ed audace Regina del popolo Termodonzio; se per l'Italia va grassando
qualche Lancinio ladro, o
discorra qualche Cacco predatore che con il
fumo e
fiamme defenda gli suoi furti; se questi,
o simili, o altri nuovi ed inauditi
mostri gli occorreranno, e se gli aventaranno, mentre per il spacioso dorso de
la terra verrà, lustrando; svolte,
riforme, discacce, perseguite, leghe, domi,
spoglie, dissipe, rompa, spezze,
franga, deprima, sommerga, brugge, casse,
uccida, annulle. Per gli quai gesti, in
mercé di tante e sì gloriose fatiche,
ordino che ne gli luoghi dove effettuarà
le sue eroiche imprese, gli sieno
drizzati trofei, statue, colossi, ed oltre fani e tempii,
se non mi contradice
il fato.
12 - Veramente, o Giove, disse Momo, adesso mi pari a
fatto a fatto dio da bene;
perché veggio che la paternale affezione
non ti trasporta a passar gli termini
circa la retribuzione secondo gli meriti del tuo Alcide;
il quale se non è degno
di tanto, è meritevole oltre forse di qualche cosa di
vantaggio, anco a giudicio
di Giunone, la qual veggio che ridendo pur accetta
quel ch'io dico.
13 Ma ecco il mio tanto aspettato
Mercurio, o Saulino, per cui conviene che
questo nostro raggionamento si differisca
ad un'altra volta. Però piacciati
discostarti e lasciarne privatamente raggionar insieme.
14 \ SAUL.\ Bene, a rivederci domani.
15 \ SOFIA\ Ecco quello a cui ieri ho indirizzati
i voti: al fine, dopo ch'ha
alquanto troppo induggiato, mi si fa
presente. Ieri a la sera doveano essere
pervenuti a lui, questa notte ascoltati, e questa mattina exequiti dal
medesimo.
Se subito a la mia voce non è comparso,
gran cosa lo deve aver intrattenuto; per
ciò che credo non essere meno amata da lui, che da me
medesima. Ecco, il veggo
uscire da quella nuvola candente,
che dal spirto d' Austro risospinta corre
verso
il centro del nostro orizonte, e cedendo
a' lampegianti rai del sole s'apre in
cerchio, quasi coronando il mio nobil pianeta. O sacrato padre, alta maestade,
io ti ringrazio, perché veggio il mio alato nume spuntar
da quel mezzo e con
l'ali distese battendo l'aria, lieto col
caduceo in mano, fender il cielo a la
mia volta, più veloce che l'ucello di Giove, più vago che
l' alite di Giunone,
più singulare che l' Arabica Fenice;
presto mi s'è aventato vicino, gentile mi si
presenta, unicamente affezionato mi si
dimostra.
16 \ MERC.\ Eccomi teco ossequioso e
favorevole a gli tuoi voti, o mia Sofia,
perché m'hai mandato a chiamare; e la tua orazione non è
pervenuta a me qual
fumo aromatico, secondo il suo costume, ma
qual penetrativa e ben alata saetta
17 \ SOFIA\ Ma tu, mio nume, che vuol dire che sì tosto,
secondo il tuo costume,
non mi ti sei fatto presente?
18 \ MERC.\ Ti dirò la veritade, o Sofia. La tua orazione
mi giunse a tempo
ch'io ero già ritornato da l'inferno, a
commettere nelle mani di Minoe, Eaco e
Radamanto ducento quarantasei milia
cinquecento e vinti due anime, che per
diverse battaglie, supplicii
e necessitadi hanno compito il corso de
l' animazione di corpi presenti. Ivi era
meco la Sofia celeste, chiamata
volgarmente Minerva e Pallade, la qual, al vestito ed a
l'andare, subito conobbe
che quella ambasciata era la tua....
19 \ SOFIA\ Ben la possea conoscere, perché non meno che
con te, frequentemente
suole contrattar con lei.
20 \ MERC.\ ... E mi disse: - Volgi gli
occhi, o Mercurio, ché per te viene
questa ambasciaria de la nostra germana e
figlia terrestre. Quella che vive del
mio spirito e più di lungi, vicino alle tenebre, procede
dal lume del mio padre,
voglio che ti sia raccomandata. - È cosa soverchia, io li risposi, o nata del
cervello di Giove, il raccomandarmi la
tanto amata nostra comune sorella e
figlia. - Mi approssimai, dunque, alla tua
messaggera: l' abbraccio, la bacio, la
metto in compendio, apro gli bottoni del gippone, e me l' insacco tra la camicia
e la pelle, sotto la quale batte e ribatte il polso del core. Giove (il quale
era presente, poco discosto, raggionando
in secreto con Eolo ed Oceano, li quali
erano inbottati, per ritornarsene
presto alli negocii suoi qua giù) vedde quel
ch'io feci, e rompendo il raggionamento in cui si ritrovava, fu curioso di
dimandarmi subito che memoriale quello
fusse che m'avevo messo in petto; ed
avendogli io risposto com'era cosa tua:
-Oh la mia povera Sofia! disse, come la
passa? come la fa? Ahi poverina, da quel cartoccio,
che non è troppo riccamente
piegato, io comprendevo
che non possev'essere altro che quel che dici. È pur
gran tempo che non abbiamo avuto nova alcuna di lei. Or
che cosa la dimanda? che
gli manca? che ti propone? - Non altro, dissi, eccetto
ch'io gli sia assistente
ad ascoltarla per un'ora. - Sta bene, -
disse, e tornò a compire il
raggionamento con que' doi dei; e cossì poi in fretta mi chiamò a sé, dicendo: -
Su, su, presto, doniamo ordine a nostri
affari, prima che tu vadi a veder che
vuole quella meschina, ed io a ritrovar questa mia tanto
fastidiosa mogliera,
che certo mi pesa più che tutta la carca
de l'universo. - Subito volse (perché
cossì è novamente decretato nel cielo) che di mia mano registrasse tutto quel
che deve essere provisto oggi nel mondo.
21 \ SOFIA\ Fatemi, se vi piace, alquanto udire di
negocii, poi che m'hai
svegliata questa cura nel petto.
22 \ MERC.\ Ti dirò. Ha ordinato, che oggi a mezzo giorno
doi meloni, tra gli
altri, nel melonaio di Franzino
sieno perfettamente maturi; ma che non sieno
colti, se non tre giorni appresso, quando non saran
giudicati buoni a mangiare.
Vuole ch'al medesimo tempo dalla iuiuma,
che sta alle radici del monte di
Cicala, in casa di Gioan Bruno,
trenta iuiomi sieno perfetti colti, e diece
sette caggiano scalmati in terra, quindeci
sieno rosi da' vermi. Che Vasta,
moglie di Albenzio, mentre si vuole increspar
gli capelli de le tempie, vegna,
per aver troppo scaldato il ferro, a bruggiarne cinquanta sette; ma che non si
scotte la testa, e per questa volta non biastemi quando sentirà il puzzo;
ma con
pazienza la passe. Che dal sterco del suo
bove nascano ducento cinquanta doi
scarafoni, de quali quattordeci
sieno calpestrati ed uccisi per il piè di
Albenzio, vinti sei muoiano di rinversato, venti doi vivano in caverna, ottanta
vadano in peregrinaggio per il cortile, quarantadoi si retireno a vivere sotto
quel ceppo vicino a la porta, sedeci vadano isvoltando
le pallotte per dove
meglio li vien comodo, il resto corra a la fortuna. A Laurenza, quando si
pettina, caschino diece
sette capelli, tredeci se gli rompano, e di quelli diece
rinascano in spacio di tre giorni, e gli
sette non rivegnano più. La cagna
d'Antonio Savolino concepa cinque cagnolini, de quali tre a suo tempo vivano, e
doi sieno gittati via; e di que' tre il primo sia simile a
la madre, il secondo
sia vario, il terzo sia parte simile al padre e parte a
quello di Polidoro. In
quel tempo il cuculo s' oda
cantare da la Starza, e non faccia udire più
né meno
che dodici cuculate; e poi si parta, e
vada a le roine del castello Cicala per
undeci minuti d'ora, e da là se ne vole a Scarvaita; e di quello che deve essere
appresso, provederemo poi. Che la gonna
che mastro Danese taglia su la pianca,
vegna stroppiata. Che da le tavole del
letto di Costantino si partano dodeci
cimici, e sene vadano al capezzale: sette degli più grandi, quattro de più
piccioli, uno de mediocri; e di quello che di essi ha da
essere questa sera al
lume di candela, provederemo. Che a
quindeci minuti de la medesima ora per il
moto de la lingua, la quale si varrà la quarta volta
rimenando per il palato, a
la vecchia di Fiurulo casche
la terza mola che tiene nella mascella destra di
sotto; la qual caduta sia senza sangue e
senza dolore; perché la detta mola è
gionta al termine della sua trepidazione, che ha perdurato
a punto diece sette
annue revoluzioni lunari.
Che Ambruoggio nella centesima e duodecima
spinta
abbia spaccio ed ispedito il negocio con la mogliera, e
che non la ingravide per
questa volta, ma ne l'altra con quel seme in cui si convertisce quel porro
cotto, che mangia al presente con la sapa
e pane di miglio. Al figlio di
Martinello comincieno a
spuntar i peli de la pubertade nel pettinale, ed insieme
insieme comincie a gallugarli la voce. Che
a Paulino, mentre vorrà alzar un' ago
rotta da terra, per la forza che egli farà, se gli rompa
la stringa rossa de le
braghe; per la qual cosa, se bestemmiarà,
voglio che sia punito appresso con
questo, che questa sera la sua minestra
sia troppo salita e sappia di fumo;
caggia e se gli rompa il fiasco pieno di
vino; per la qual causa se bestimmiarà,
provederemo poi. Che di sette talpe, le quali da quattro
giorni fa son partite
dal fondo de la terra, prendendo diversi
camini verso l'aria, due vegnano a la
superficie de la terra nell'ora medesima, l'una al punto
di mezzo giorno,
l'altra a quindeci minuti e diece nove secondi appresso,
discoste l'una da
l'altra tre passi, un piede e mezzo dito
ne l' orto di Anton Faivano.
Del tempo e
luogo de l'altre si provederà al più
tardi.
23 \ SOFIA\ Hai molto da fare, o Mercurio, se mi vuoi
raccontare tutti questi
atti della provisione, che fa il padre Giove; e nel
volermi tutti questi decreti
particolari uno per uno far ascoltare, mi
pari che sei simil a colui, che
volesse prendere il conto de granegli de
la terra. Tu sei stato tanto a
apportare quattro minuzzarie de infinite
altre che nel medesimo tempo sono
accadute in una picciola contrada, dove
son quattro o cinque stanze non troppo
magnifiche; or che sarrebe, se dovessi donar conto a pieno de cose ordinate in
quella ora per questa villa, che sta alle
radici del monte Cicada? Certo, non ti
bastarebbe un anno da esplicarle
una per una, come hai cominciato a fare. Che
credi, se oltre volessi apportar tutte le cose accadute
circa la città di Nola,
circa il regno di Napoli, circa l'Italia, circa l'Europa,
circa tutto il globo
terrestre, circa ogni altro globo in infinito, come
infiniti son gli mondi
sottoposti alla providenza di Giove? In
vero, per apportar solo quello che è
accaduto ed ordinato d'esser in uno instante nell' ambito d'un solo di questi
orbi o mondi, non ti fia mestiero dimandar
cento lingue e cento bocche di ferro,
come fanno gli poeti, ma mille millia
migliaia de millioni in termine d'un anno,
ad non averne executata la millesima
parte. E per dirla, o Mercurio, non so che
voglia dir questo tuo riporto, per cui
alcuni de' miei coltori, chiamati
filosofi, stimano che questo povero gran padre Giove sia
molto sollecito,
occupato ed impacciato; e credeno che lui
sia di tal fortuna, che non è minimo
mortale che debba aver invidia al stato suo. Lascio che in
quel tempo che
spendeva a proponere e destinar
questi effetti, necessariamente scorsero
infinite volte infinite occasioni di provedere ed aver
provisto ad altri; e tu,
mentre me le vuoi raccontare, se volesse far l'officio
tuo, devi averne fatti e
farne infinite volte altri infiniti.
24 \ MERC.\ Sai, Sofia, se sei Sofia, che Giove fa tutto
senza occupazione,
sollecitudine ed impacciamento, perché a
specie innumerabili ed infiniti
individui provede donando ordine, ed avendo donato ordine,
non con certo ordine
successivo, ma subito subito ed insieme
insieme; e non fa le cose a modo de gli
particolari efficienti, ad una ad una, con molte azioni, e
con quelle infinite
viene ad atti infiniti; ma tutto il passato, presente e
futuro fa con un atto
semplice e singulare.
25 \ SOFIA\ Io posso saper questo, o Mercurio, che non
insieme insieme
raccontate e mettete in
execuzione queste cose, ed esse non sono in un suggetto
semplice e singolare: e però l'efficiente
deve essere proporzionato, o almeno
con l' operazione proporzionarsi a quelle.
26 \ MERC.\ È vero quel che dici, e deve essere cossì, e
non può essere
altrimente nello efficiente particolare, prossimo e
naturale; perché ivi,
secondo la raggione e misura dell' effettiva
virtude particulare, séguita la
misura e raggione de l'atto particolare circa il particular suggetto; ma
nell'efficiente universale non è cossì, perché lui è
proporzionato, se si può
dir cossì, a tutto l'effetto infinito che da lui depende, secondo la raggione de
tutti luoghi, tempi, modi e suggetti, e non definitamente
ad certi luoghi,
suggetti, tempi e modi.
27 \ SOFIA\ So, o Mercurio, che la cognizione universale è
distinta dalla
particolare, come il finito da l'infinito.
28 \ MERC.\ Di' meglio: come l' unitade da
l'infinito numero. E devi saper
ancora, o Sofia, che la unità è nel numero infinito, ed il
numero infinito
nell'unità; oltre che l'unità è uno infinito implicito,
e l'infinito è la unità
explicita: appresso che dove non è unità,
non è numero, né finito, né infinito;
e dovunque è numero o finito o infinito, ivi
necessariamente è l'unità. Questa
dunque è la sustanza di quello; dunque, chi non accidentalmente, come alcuni
intelletti particolari, ma essenzialmente,
come l'intelligenza universale,
conosce l'unità, conosce l'uno ed il numero, conosce il
finito ed infinito, il
fine e termine da compreensione ed eccesso
di tutto; e questo può far tutto non
solo in universale, ma oltre in particolare; cossì come
non è particolare che
non sia compreso nell'universale, non è numero, in cui più
veramente non sia
l'unità, che il numero istesso. Cossì, dunque, senza difficoltà alcuna e senza
impaccio Giove provede a tutte cose in
tutti luoghi e tempi, come
necessariamente lo essere ed unità si trova in tutti
numeri, in tutti luoghi, in
tutti tempi ed atomi di tempi, luoghi e numeri; e l'unico
principio de l'essere
è in infiniti individui, che furono, sono e saranno. Ma
non è questa
disputazione il fine per cui sono venuto,
e per cui credo d'esser stato chiamato
da te.
29 \ SOFIA\ È vero che so bene che queste son cose degne
d'esser decise da miei
filosofi, e pienamente intese non da me, che non le posso
capire, eccetto che
difficilmente in comparazioni e similitudini,
ma dalla Sofia celeste e da te; ma
da quel tuo raccontare son stata commossa a cotal
questione, prima che venire a
discorrere circa gli mei particolari interessi
e dissegni. E certo mi parevi che
senza ogni proposito tu, giudiciosissimo
nume, fussi entrato in quello discorrer
di cose cossì minime e basse.
30 \ MERC.\ Non l'ho fatto con vanità, ma con grande
providenza, Sofia; perché
ho giudicata necessaria questa animadversione
a te, per quel che conosco, che
per le molte affliczioni sei di tal
maniera turbata, che facilmente l'affetto ti
vegna trasportato a voler non troppo piamente
opinare circa il governo de gli
dei; il quale è giusto e sacrosanto al fin finale, benché
le cose appaiono, in
quella maniera che tu vedi, confusissime. Ho voluto
dunque, prima che trattasse
altro, provocarti a cotal contemplazione,
per renderti sicura dal dubio che
potessi aver, e forse molte volte dimostri;
perché, essendo tu terrena e
discorsiva, non puoi apertamente intendere
l'importanza de la providenza di
Giove, e del studio di noi altri suoi collaterali.
31 \ SOFIA\ Ma pure, o Mercurio, che vuol dire, che più
tosto al presente, che
altre volte, ti ha commosso questo zelo?
32 \ MERC.\ Ti dirò (quello ch'ho differito di dirti sin
al presente): perché il
tuo voto, la tua orazione, la tua ambasciaria, benché sia
gionta in cielo e
pervenuta a noi veloce e presta, era però a mezza estade agghiacciata, era
irresoluta, era tremante,
quasi più gittata come alla fortuna che inviata
e
commessa come a la providenza: quasi che era dubia, se la
possea aver effetto di
toccarne l'orecchie, come di quelli che
sono attenti a cose che son stimate più
principali. Ma te inganni, Sofia, se pensi, che non ne
sieno a cura cossì le
cose minime, come le principali, talmente sicome le cose grandissime e
principalissime non costano
senza le minime ed abiettissime. Tutto dunque,
quantunque minimo, è sotto infinitamente
grande providenza; ogni quantosivoglia
vilissima minuzzaria in
ordine del tutto ed universo è importantissima; perché
le cose grandi son composte de le
picciole, e le picciole de le picciolissime, e
queste de gl'individui e minimi. Cossì intendo de le
grande sustanze, come de le
grande efficacie e grandi effetti.
33 \ SOFIA\ È vero, perché non è sì grande, sì magnifico e
sì bello architetto
che non coste di cose che picciole, vilissime
ed informi appaiono e son
giudicate.
34 \ MERC.\ L'atto della cognizion divina è la sustanza de
l'essere di tutte
cose; e però, come tutte cose o finito o infinito hanno
l'essere, tutte ancora
sono conosciute ed ordinate e proviste. La cognizion
divina non è come la
nostra, la quale séguite dopo le cose; ma è avanti le cose
e si trova in tutte
le cose, di maniera che, se non la vi si trovasse, non
sarrebono cause prossime
35 \ SOFIA\ E per questo vuoi, o Mercurio, che io non mi sgomente per cosa
minima o grande che mi accade, non solo come principale e diretta, ma ancora
come indiretta ed accessoria;
e che Giove è in tutto, e colma il tutto, ed
ascolta tutto.
36 \ MERC.\ Cossì è; però per l'avenire sovengati
di scaldar più la tua
ambasciaria, e non mandarla cossì negletta, mal vestita e fredda in presenza di
Giove; e lui e la tua Pallade m'hanno imposto, che prima
ch'io ti parlasse
d'altro, con qualche desterità ti facesse
accorta di questo.
37 \ SOFIA\ Io vi ringrazio tutti.
38 \ MERC.\ Or esplica la causa per la quale m'hai fatto
venire a te..
39 \ SOFIA\ Per la mutazione e cangiamento di costumi,
ch'io comprendo in Giove,
per quello che per altri raggionamenti ho
appreso da te; io sono entrata in
sicurtà di dimandargli e fargli instanza
di ciò che altre volte non ho avuto
ardire, quando temeva che qualche Venere o
Cupido o Ganimede rigettasse e
risospingesse la mia ambasciaria, quando
si presentava a la porta de la camera
di Giove. Adesso ch'è riformato il tutto, e che sono
ordinati altri portinaii,
condottieri ed assistenti, e che lui è ben disposto verso
la giustizia, voglio
che per tuo mezzo li vegna presentata la mia richiesta, la
qual versa circa gli
gran torti che mi vegnono fatti da diverse
sorte di uomini in terra, e pregarlo
che mi sia favorevole e propicio, secondo
che la sua conscienza li dettarà.
40 \ MERC.\ Questa tua richiesta, per esser lunga e di non
poca importanza, ed
anco per esser novamente decretato nel cielo, che tutte le
espedizioni, tanto
civili quanto criminali, vegnano registrate nella camera, non senza tutte le
occasioni, mezzi e circonstanze loro, però è necessario,
che tu me la porghi in
scritto, e cossì la presenti a Giove ed al Senato celeste.
41 \ SOFIA\ Onde questo nuovo ordine?
42 \ MERC.\ Acciò che ognuno di gli dei in questo modo
vegna costretto a far la
giustizia; perché per la registrazione che
eterniza la memoria de gli atti,
vengano a temer l'eterna infamia, e
d'incorrere biasimo perpetuo con la
condannazione che si deve aspettar
dall'absoluta giustizia che regna sopra li
governatori, ed è presidente sopra tutti dei.
43 \ SOFIA\ Cossì, dunque, farò. Ma vi bisogna del tempo a
pensare e scrivere;
però ti priego che rivegni domani a me, o
vero il prossimo seguente giorno.
44 \ MERC.\ Non mancarò. Tu pensa a quel che fai.
Dial. 2
Prima parte del secondo dialogo.
1 \ SAUL.\ Di grazia, Sofia, prima che procediamo in
altro, donatemi raggione di
questo ordine e disposizione di numi, la quale ha formata Giove ne gli astri. E
prima fatemi udire, perché nell' eminentissima
(perché cossì è stimata
volgarmente) sedia abbia voluto che sia la dea Veritade?
2 \ SOFIA\ Facilmente. Sopra tutte le cose, o Saulino, è
situata la verità;
perché questa è la unità che soprasiede al tutto, è la
bontà che è preeminente
ad ogni cosa; perché uno è lo ente, buono e vero; medesimo
è vero, ente e buono.
La verità è quella entità che non è inferiore a cosa
alcuna; perché, se vuoi
fengere qualche cosa avanti la verità, bisogna che stimi
quella essere altro che
verità; e se la fingi altro che verità,
necessariamente la intenderai non aver
verità in sé ed essere senza verità, non essere vera; onde
conseguentemente è
falsa, è cosa de niente, è nulla, è non ente. Lascio che
niente può essere prima
che la verità, se non è vero che quello sia primo e sopra
la verità; e cotal
vero essere non può essere se non per la verità. Cossì non
può essere altro
insieme con la verità, ed essere quel medesimo senza
verità; percioché, se per
la verità non è vero, non è ente, è falso, è nulla.
Parimente non può essere
cosa appresso la veritade; perché, se è dopo lei, è senza
lei; se è senza lei,
non è vero; perché non ha la verità in sé; sarà dunque
falso, sarà dunque
niente. Dunque la verità è avanti tutte le cose, è con
tutte le cose, è dopo
tutte le cose, è sopra tutto, con tutto, dopo tutto; ha
raggione di principio,
mezzo e fine. Essa è avanti le cose, per modo di causa e
principio, mentre per
essa le cose hanno dependenza; è nelle
cose ed è sustanza di quelle istessa,
mentre per essa hanno la sussistenza; è
dopo tutte le cose, mentre per lei senza
falsità si comprendeno. È ideale, naturale
e nozionale; è metafisica, fisica e
logica. Sopra tutte le cose, dunque, è la verità; e ciò
che è sopra tutte le
cose, benché sia conceputo secondo altra raggione, ed
altrimente nominato,
quello pure in sustanza bisogna che sia l'istessa verità.
Per questa causa,
dunque, raggionevolmente Giove ha voluto che nella più
eminente parte del cielo
sia vista la veritade. Ma certo questa che sensibilmente
vedi e che puoi con
l' altezza del tuo intelletto capire, non è
la somma e prima, ma certa figura,
certa imagine e certo splendor di quella, la quale è
superiore a questo Giove di
cui parliamo sovente e che è soggetto delle nostre
metafore.
3 \ SAUL.\ Degnamente, o Sofia; perché la verità è la cosa
più sincera, più
divina di tutte; anzi la divinità e la sincerità, bontà e
bellezza de le cose è
la verità; la quale né per violenza si toglie, né per antiquità si corrompe, né
per occultazione si sminuisce,
né per communicazione si disperde: perché
senso
non la confonde, tempo non l' arruga,
luogo non l'asconde, notte non
l' interrompe, tenebra non l' avela; anzi, con essere più e più impugnata, più
e
più risuscita e cresce. Senza difensore e protettore si defende; e però ama la
compagnia di pochi e sapienti, odia la
moltitudine, non si dimostra a quelli che
per se stessa non la cercano, e non vuol essere dechiarata a color che umilmente
non se gli esponeno, né a tutti quei che
con frode la inquireno; e però dimora
altissima, dove tutti remirano e pochi
veggono. Ma perché, o Sofia, la prudenza
gli succede? forse, perché coloro che vogliono contemplar
la verità e che la
vogliono predicare, si deveno
con prudenza governare?
4 \ SOFIA\ Non è questa la causa. Quella dea che è gionta
e prossima alla
verità, ha doi nomi: providenza e prudenza. E si chiama
providenza, in quanto
influisce e si trova nelli principii superiori; e si
chiama prudenza, in quanto
è effettuata in noi: come sole suole essere
nomato e quello che scalda e
diffonde il lume, ed oltre quel lume e splendor diffuso
che si trova nel
specchio ed oltre in altri suggetti. La providenza,
dunque, se dice nelle cose
superiori, ed è compagna della verità, e non è senza
quella, ed è la medesima
libertà e la medesima necessità; di maniera che la verità,
la providenza, la
libertà e necessità, la unità, la verità, la essenzia, la
entità, tutte sono uno
absolutissimo, come altre volte ti farò meglio intendere.
Ma, per comodità della
presente contemplazione, sappi che questa influisce in noi
la prudenza, la qual
è posta e consistente in certo discorso temporale;
ed è una razione principale
che versa circa l'universale e particolare; ha per damigella la dialettica, e
per guida la sapienza acquisita, nomata volgarmente metafisica, la quale
considera gli universali de tutte le cose
che cascano in cognizione umana: e,
queste due, tutte le sue considerazioni referiscono
all'uso di quella; ha due
insidiatrici nemiche che sono viziose:
dalla destra si trova la callidità,
versuzia e malizia; dalla sinistra, la stupidità, inerzia
ed imprudenzia. E
versa circa la virtù consultativa, come la
fortezza circa l'impeto de
l' iracundia, la temperanza circa il
consentimento della concupiscibile, la
giustizia circa tutte le operazioni, tanto esterne, quanto
interiori.
5 \ SAUL.\ Dalla providenza, dunque, vuoi che influisca
in noi la prudenza, e
che nel mondo archetipo quella risponda a
questa che è nel mondo fisico: questa
che porge a gli mortali il scudo, per cui contra le cose adverse con la raggione
si fortificano, per cui siamo insegnati di
prendere più pronta e perfetta
cautela dove maggiori dispendii si
minacciano e temeno; per cui gli agenti
inferiori s'accomodano alle cose, ai tempi ed all'occasioni;
e non si mutano, ma
s'adattano gli animi e le voluntadi. Per cui a gli bene
affetti niente accade
come subitanio ed improviso, di nulla dubitano, ma tutto
aspettano; di nulla
suspicano, ma da tutto si guardano;
ricordandosi il passato, ordinando il
presente e prevedendo il futuro. Or dimmi,
perché Sofia succede ed è prossima a
la prudenza e veritade?
6 \ SOFIA\ La Sofia, come la verità e la providenza, è di
due specie. L'una è
quella superiore, sopraceleste ed oltremondana, se cossì dir si puote; e questa
è l'istessa providenza, medesima è luce ed occhio: occhio,
che è la luce
istessa; luce, che è l'occhio istesso. L'altra è la consecutiva, mondana ed
inferiore; e non è verità istessa, ma è verace e partecipe
della verità; non è
il sole, ma la luna, la terra ed astro, che
per altro luce. Cossì non è Sofia
per essenza, ma per participazione; ed è un occhio che riceve la luce e viene
illuminato da lume esterno e peregrino; e
non è occhio da sé, ma da altro; e non
ha essere per sé, ma per altro. Perché non è l'uno, non è
l'ente, il vero; ma de
l'uno, de l'ente, del vero; a l'uno, a l'ente, al vero;
per l'uno, per l'ente,
per il vero; nell'uno, nell'ente, nel vero; da l'uno, da
l'ente, dal vero. La
prima è invisibile ed infigurabile ed incomprensibile sopra tutto, in tutto ed
infra tutto; la seconda è figurata in cielo, illustrata
nell'ingegni,
communicata per le paroli, digerita per
l'arti, repolita per le discussioni,
delineata per le scritture; per la quale
chi dice sapere quel che non sa, è
temerario sofista; chi nega sapere quel che sa, è ingrato a l'intelletto agente
ed ingiurioso a la verità, ed oltraggioso
a me. E di simil sorte vegnono ad
essere tutti quelli che non mi cercano per me stessa, o
per la suprema virtude
ed amor della divinitade, ch'è sopra ogni Giove ed ogni
cielo, ma o per vendermi
per denari o per onori, o per altre specie
di guadagno; o non tanto per sapere,
quanto per essere saputi, o per detraere e posser impugnare, e farsi contra la
felicità d'alcuni molesti censori e rigidi osservatori; e di questi li primi son
miseri, li secondi son vani, li terzi son maligni e di vil
animo. Ma color che
mi cercano per edificar se stessi, sono prudenti; gli
altri che m' osservano per
edificar altrui, sono umani; quei che mi cercano absolutamente,
sono curiosi;
gli altri che m'inquireno per amor della suprema e prima
verità, sono sapienti,
e per conseguenza felici.
7 \ SAUL.\ Onde aviene, o Sofia, che non tutti, che
medesimamente ti possedeno,
non vegnono tutti medesimamente affetti; anzi talor, chi
meglio ti possede, men
8 \ SOFIA\ Onde accade, o Saulino, che il sole non scalda
tutti quelli alli
quali luce, e tal volta meno riscalda
tali a' quali maggiormente risplende?
9 \ SAUL.\ Io t'intendo, Sofia; e comprendo che tu sei
quella che in varii modi
contempli, comprendi ed esplichi questa veritade, e gli effetti di quella
superna influenza de
l'esser tuo, alla quale per varii gradi e scale diverse
tutti aspirano, tentano, studiano e si forzano
salendo pervenire, e si obietta e
presenta medesimo fine e scopo a' diversi studii, e viene
ad attuare diversi
suggetti de virtudi intellettuali, secondo diverse misure,
mentre a quell'una e
semplicissima veritade l'addrizza; la quale come non è chi
alcunamente la possa
toccare, cossì non si trova qua basso chi la possa
perfettamente comprendere:
perché non è compresa, o veramente non viene appareggiata
se non da quello in
cui è per essenza; e questo non è altro che lei medesima.
E perciò da fuori non
si vede se non in ombra, similitudine, specchio ed in
superficie e maniera di
faccia, alla quale non è in questo mondo chi più s'avicine
per atto di
providenza ed effetto di prudenza, eccetto che tu, Sofia,
mentre vi conduci
sette diverse, de le quali altre admirando,
altre parabolando, altre inquirendo,
altre opinando, altre iudicando
e determinando; altre per sufficienza di natural
magia, altre per superstiziosa
divinazione, altre per modo di negazione, altre
per modo di affirmazione, altre per via di
composizione, altre per via di
divisione, altre per via de definizione,
altre per via di demostrazione; altre
per principii acquisiti, altre per
principii divini aspirano: mentre quella gli
crida, in nullo luogo presente, da nullo luogo absente, proponendogli avanti gli
occhi del sentimento per scrittura tutte le cose ed
effetti naturali, e
gl'intona nell'orecchio de l' interna
mente per le concepute specie di cose
visibili ed invisibili.
10 \ SOFIA\ Alla Sofia succede la legge, sua figlia; e per
essa quella vuole
oprare, e per questa lei vuole essere adoperata; per
questa gli prencipi
regnano, e li regni e republiche si mantegnono. Questa, adattandosi alla
complessione e costumi di popoli e genti, reprime
l'audacia col timore, e fa che
la bontade sia sicura tra gli scelerati; ed è caggione,
che ne gli rei sempre
sia il rimorso della conscienza, con il timore della
giustizia ed aspettazione
di quel supplicio che discaccia
l'orgoglioso ardire, ed introduce l'umile
consentimento con gli suoi otto ministri, che sono taglione, carcere, percosse,
esilio, ignominia,
servitù, povertade e morte. Giove l'ha riposta in cielo ed
essaltata con questa condizione, che
faccia che gli potenti per la lor
preeminenza e forza non sieno sicuri; ma referendo il tutto a maggior providenza
e legge superiore (per cui, come divina e naturale, si
regole la civile), faccia
intendere, che per coloro ch'esceno dalle tele
d' aragne, sono ordinate le reti,
gli lacci, le catene ed i ceppi, atteso
che per ordine della legge eterna è
sancito, che gli più potenti sieno più potentemente compresi e vinti, se non
sotto un manto e dentro una stanza, sotto altro manto ed
altra stanza, che sarà
peggiore. Appresso gli ha ordinato ed imposto, che
massimamente verse e vegna
rigorosa circa le cose alle quali da
principio e prima e principal causa è stata
ordinata: cioè circa quel tanto ch'appartiene alla
communione de gli uomini,
alla civile conversazione; a fine che gli potenti sieno sustenuti da
gl' impotenti, gli deboli
non sieno oppressi da gli più forti, sieno deposti gli
tiranni, ordinati e confirmati gli giusti
governatori e regi, sieno faurite le
republiche, la violenza non inculche la
raggione, l'ignoranza non dispreggie la
dottrina, li poveri sieno agiutati da'
ricchi, le virtudi e studii utili e
necessarii al commune sieno promossi, avanzati e mantenuti; sieno esaltati
e
remunerati coloro che profittaranno
in quelli; e gli desidiosi, avari e
proprietarii sieno spreggiati e tenuti a vile. Si mantegna il timore e culto
verso le potestadi invisibili; onore, riverenza e timore
verso gli prossimi
viventi governatori; nessuno sia preposto in potestà, che medesimo non sia
superiore de meriti, per virtude ed ingegno in cui prevaglia, o per sé solo, il
che è raro e quasi impossibile, o con comunicazione e
conseglio d'altri ancora,
il che è debito, ordinario e necessario. Gli ha donata
Giove la potenza di
legare, la quale massime consista in questo, che lei non
si faccia tale che
incorra dispreggio e indignità; a cui si
potrà incontrare, menando gli passi per
doi camini, de quali l'uno è della iniquità, comandando e
proponendo cose
ingiuste, l'altro è della difficultà, proponendo e
comandando cose impossibili,
le quali pure sono ingiuste: perciò che due sono le mani
per le quali è potente
a legare ogni legge, l'una è della giustizia, l'altra è
della possibilità; e di
queste l'una è moderata da l'altra, atteso
che, quantunque molte cose sono
possibili che non son giuste, niente però è giusto che non
sia possibile.
11 \ SAUL.\ Bene dici, o Sofia, che nessuna legge che non
è ordinata alla
prattica del convitto umano, deve essere accettata. Ben ha
disposto ed
ordinatogli Giove; perché, o che vegna dal
cielo, o che esca da la terra, non
deve esser approvata, né accettata quella
instituzione o legge che non apporta
la utilità e commodità, che ne amena ad ottimo fine: del
quale maggiore non
possiamo comprendere che quello, che talmente indirizza
gli animi e riforma
gl'ingegni, che da quelli si producano
frutti utili e necessari alla
conversazione umana; ché certo bisogna che sia cosa
divina, arte de le arti e
disciplina de le discipline quella per cui hanno da esser
retti e reprimuti gli
uomini, che tra tutti gli animali son di complessioni più
distinti, di costumi
più varii, d'inclinazioni più divisi, e di voluntadi più
diversi, di appulsi più
inconstanti. Ma, oimè, o Sofia, che siamo dovenuti a tale
(chi mai avri' possuto
credere, che questo fusse possibile?), che quella deve
essere stimata massime
religione la quale per minimo e vile, e per errore abbia
l'azione ed atto di
buone operazioni; dicendo alcuni, che di quelle non si
curano gli dei, e per
quelle, quantunque sieno grandi, non sono giusti gli
uomini.
12 \ SOFIA\ Certo, o Saulino, io credo sognare;
penso che sia un fantasma, una
apparizione di turbata fantasia, e non cosa vera quella
che dici; ed è pur certo
che si trovano tali, che proponano e
facciano creder questo a le misere genti.
Ma non dubitare, perché il mondo facilmente si accorgerà che questo non si può
digerire, cossì come facilmente si può avedere
di non posser sussistere senza
legge e religione.
13 Or abbiamo alquanto veduto, come bene è stata ordinata
e situata la legge:
devi adesso udire, con qual cognizione a quella è vicino
aggionto il giudizio.
Giove al giudicio ha messo in mano la spada e la corona:
questa, con cui premie
quelli che oprano bene, astenendosi
dal male; quella, con cui castighe color che
son pronti a gli delitti, e son disutili ed infruttifere
piante. Ha ingionto al
giudicio la defensione e cura della vera legge, e la destruzione dell'iniqua e
falsa, dettata da genii perversi ed inimici del tranquillo e felice stato umano;
ha comandato al giudicio che, gionto alla legge, non estingua, ma, quanto si
può, accenda l'appetito de la gloria ne gli petti umani,
perché questo è quel
solo ed efficacissimo sprone, che suole
incitar gli uomini e riscaldarli a
quelli gesti eroici che aumentano, mantegnono e
fortificano le republiche.
14 \ SAUL.\ Li nostri de la finta religione tutte queste glorie le chiamano
vane; ma dicono che bisogna gloriarsi
solamente in non so che tragedia
15 \ SOFIA\ Oltre, che non attenda a quel che s'imagine o
pense ciascuno, pur
che le paroli e gesti non corrompano il
stato tranquillo; e massime verse in
correggere e mantenere
tutto quel che consiste ne l'operazioni, non giudicar
l'arbore da belle frondi, ma da buoni
frutti; e quelli che non le producono,
sieno tolti e cedano il loco ad altri che porgano. Che non creda, che in modo
alcuno li dei si senteno interessati in quelle cose nelle
quali nessuno uomo si
sente interessato; perché di quelle cose solamente gli dei
si curano de le quali
si possono curar gli uomini, e non per cosa che vegna
fatta o detta o pensata
per essi, si commuoveno o se adirano,
se non in quanto per quello venesse a
perdersi quel rispetto per cui si mantegnono le
republiche; atteso che gli dei
non sarebono dei, se si prendessero
piacere o dispiacere, tristizia o allegrezza
per quello che fanno o pensano gli uomini;
ma quelli sarebono più bisognosi che
questi, o al meno cossì quelli riceverebono
utilitade e profitto da questi, come
questi da quelli. Essendono, dunque, li dei rimossi da
ogni passione, vegnono ad
aver ira e piacere attivo solamente, e non
passivo; e però non minacciano
castigo e prometteno premio, per male o
bene che risulta in essi, ma per quello
che viene ad essere commesso nelli popoli e civile
conversazioni, alle quali
hanno soccorso con le loro divine, non bastandogli
le umane leggi e statuti. Per
tanto è cosa indegna, stolta, profana e biasimevole pensare che gli dei
ricercano la riverenza, il timore,
l'amore, il culto e rispetto da gli uomini
per altro buon fine ed utilitade che de gli uomini
medesimi: atteso che, essendo
essi gloriosissimi in sé, e non possendosegli aggionger gloria da fuori, han
fatto le leggi non tanto per ricevere gloria, quanto per communicar la gloria a
gli uomini: e però tanto le leggi e giudicii son lontane dalla bontà e verità di
legge e giudicio, quanto se discostano
dall'ordinare ed approvare massimamente
quello che consiste nell'azioni morali de
gli uomini a riguardo de gli altri
uomini.
16 \ SAUL.\ Efficacemente, o Sofia, per questa ordinazion di Giove si dimostra,
che gli arbori, che sono ne gli orti delle leggi, sono
ordinati da gli dei per
gli frutti, e specialmente tali, de quali si pascano, si nutriscano e conservino
gli uomini; e che gli superi non si delettano
d' odore d'altri che di questi.
17 \ SOFIA\ Ascolta. Da questo vuole, che il giudizio
inferisca che li dei
massime vogliano essere amati e temuti,
per fine di faurire al consorzio umano,
ed avertire massimamente que' vizii che
apportano noia a quello; e però li
peccati interiori solamente denno esser giudicati peccati,
per quel che metteno
o metter possono in effetto esteriore; e le giustizie
interiori mai sono
giustizie senza la prattica esterna, come
le piante in vano sono piante senza
frutti, o in presenza o in aspettazione. E vuole che de
gli errori, in
comparazione, massimi sieno quelli che
sono in pregiudicio della republica;
minori quelli che sono in pregiudicio d'un altro
particolare interessato; minimo
sia quello ch'accade tra doi d'accordo; nullo è quello,
che non procede a mal
essempio o male effetto, e che da gl' impeti
accidentali accadeno nella
complessione dell'individuo. E questi son que' medesimi
errori, per gli quali
gli eminenti dei si senteno massime-, minore-, minima-, e nullamente offesi; e
per di questi l'opre contrarie si stimano massime-,
minore-, minima-, ed
alcunamente serviti. Ha comandato ancora
al giudicio, che sia accorto che per
l'avenire approve la penitenza, ma che non la metta al
pari dell'innocenza;
approvi il credere e stimare, ma giamai al
pari del fare ed operare. Cossì
intende del confessare e dire al rispetto
del corregere ed astinere; tanto
comende li pensieri, per quanto riluceno nelli segni espressi e ne gli effetti
possibili. Non faccia che colui che doma vanamente il
corpo, sieda vicino a
colui ch'affrena l'ingegno; non pona in comparazione
questo solitario disutile
con quello di profittevole conversazione. Non distingua
gli costumi e religioni
tanto per la distinzione di toghe e differenze
de vesti, quanto per buoni e
megliori abiti di virtudi e discipline. Non tanto arrida a quello che ha frenato
il fervor della libidine, che forse è impotente e freddo,
quanto a quell'altro
ch'ha mitigato l'empito de l'ira, che
certo non è timido, ma paziente. Non
applauda tanto a quello che forse disutilmente s'è ubligato a non mostrarsi
libidinoso, ch'a quell'altro che si
determina di non essere oltre maledico e
malfattore. Non dica maggior errore il
superbo appetito di gloria, onde resulta
sovente bene alla republica, che la sordida cupidiggia di danari. Non faccia
tanto trionfo d'uno, perché abbia sanato
un vile e disutil zoppo, che poco o
nulla vale più sano che infermo, quanto d'un altro ch'ha liberata la patria e
riformato un animo perturbato. Non stime
tanto, o più, gesto eroico l'aver in
qualche modo e qualche maniera possuto estinguer
il fuoco d'una fornace ardente
senz'acqua, che l'aver estinte le sedizioni d'un popolo acceso senza sangue. Non
permetta, che si addrizzeno statue a'
poltroni, nemici del stato de le
republiche, e che in pregiudicio di costumi e vita umana
ne porgono paroli e
sogni, ma a color che fanno tempii a' dei, aumentano il
culto ed il zelo di tale
legge e religione per quale vegna accesa la magnanimità ed
ardore di quella
gloria che séguita dal servizio della sua patria ed
utilità del geno umano; onde
appaiono instituite universitadi per le
discipline di costumi, lettere ed armi.
E guarde di promettere amore, onore e
premio di vita eterna ed immortalitade a
quei che approvano gli pedanti e parabolani;
ma a quelli che per adoprarsi nella
perfezione del proprio ed altrui intelletto, nel servizio
della communitade,
nell'osservanza espressa circa gli atti della magnanimità,
giustizia e
misericordia, piaceno a gli dei. Li quali per questa
caggione magnificorno il
popolo Romano sopra gli altri; perché con gli suoi
magnifici gesti, più che
l'altre nazioni, si seppero conformare
ed assomigliare ad essi, perdonando a'
summessi, debellando gli
superbi, rimettendo l'ingiurie, non obliando
gli
beneficii, soccorrendo a' bisognosi,
defendendo gli afflitti, relevando gli
oppressi, affrenando gli violenti;
promovendo gli meritevoli, abbassando gli
delinquenti, mettendo questi in terrore ed
ultimo esterminio con gli flagelli e
secure, e quelli in onore e gloria con
statue e colossi. Onde consequentemente
apparve quel popolo più affrenato e ritenuto da vizii d' incivilitade e barbaria,
e più esquisito e pronto
a generose imprese, ch'altro che si sia veduto giamai.
E mentre fu tale la lor legge e religione, tali furono gli
lor costumi e gesti,
tal è stato lor onore e lor felicitade.
18 \ SAUL.\ Vorrei, ch'al giudicio avesse ordinato qualche
cosa espressa contra
la temeritade di questi gramatici, che in tempi nostri grassano per l'Europa.
19 \ SOFIA\ Molto bene, o Saulino, Giove ha comandato,
imposto ed ordinato al
giudizio, che veda se gli è vero che costoro inducano
gli popoli al dispreggio
ed al meno a poca cura di legislatori e
leggi, con donargli ad intendere, che
quelli proponeno cose impossibili e che comandano
come per burla; cioè, per far
conoscere a gli uomini, che gli dei sanno comandare quello
che loro non possono
mettere in esecuzione. Veda se, mentre dicono che vogliono
riformare le
difformate leggi e religioni, vegnono per
certo a guastar tutto quel tanto che
ci è di buono, e confirmar e inalzar a gli
astri tutto quello che vi può essere
o fingere di perverso e vano. Veda se apportano altri
frutti, che di togliere le
conversazioni, dissipar le concordie,
dissolvere l' unioni, far ribellar
gli
figli da' padri, gli servi da padroni, gli
sudditi da superiori, mettere scisma
tra popoli e popoli, gente e gente, compagni e compagni,
fratelli e fratelli, e
ponere in disquarto le fameglie, cittadi,
republiche e regni: ed in conclusione,
se, mentre salutano con la pace, portano, ovunque entrano, il coltello della
divisione ed il fuoco della dispersione, togliendo il
figlio al padre, il
prossimo al prossimo, l' inquilino a la
patria, e facendo altri divorzii orrendi
e contra ogni natura e legge. Veda se, mentre si dicono
ministri d'un che
risuscita morti e sana infermi, essi son
quei che, peggio di tutti altri che
pasce la terra, stroppiano gli sani ed uccideno
gli vivi, non tanto con il fuoco
e con il ferro, quanto con la perniciosa lingua. Veda che
specie di pace e
concordia è quella, che proponeno a gli popoli miserandi, se forse vogliono ed
ambiscono, che tutto il mondo concorde e consenta alla lor maligna
e
presuntuosissima ignoranza, ed approve la
lor malvaggia conscienza, mentre essi
non vogliono concordare né consentire a
legge, a giustizia e dottrina alcuna; ed
in tutto il resto del mondo e di secoli non appare tanta
discordia e dissonanza,
quanta si convence tra loro. Per ciò che
tra diece mila di simil pedanti non si
trova uno che non abbia un suo catecismo formato; se non publicato, al meno per
publicare quello che non approva
nessuna altra instituzione che la propria,
trovando in tutte l'altre che dannare, riprovare e dubitare; oltre che si trova
la maggior parte di essi che son discordi
in se medesimi, cassando oggi quello
che scrissero l'altro giorno. Veda qual
riuscita facciano essi, e quai costumi
suscitano e provocano ne gli altri, per
quanto appartiene a gli atti de la
giustizia e misericordia, e la conservazione
ed aumento di beni publici; se per
lor dottrina e magistero sono drizzate
academie, universitadi, tempii, ospitali,
collegii, scuole e luoghi de discipline
ed arti; o pure, dove queste cose si
trovano, son quelle medesime e fatte de medesime facultadi
che erano prima che
loro venissero e comparissero tra le
genti. Appresso, se per loro cura queste
cose sono aumentate, o pure per loro
negligenza disminuite, poste in ruina,
dissoluzione e dispersione. Oltre, se sono occupatori di
beni altrui, o pure
elargitori di beni proprii; e finalmente,
se quelli, che prendono la lor parte,
aumentano e stabiliscono gli beni publici, come faceano
gli lor contrarii
predecessori, o pure insieme con questi le
dissipano, squartano e divorano;
e
mentre deprimeno l'opre, estingueno ogni
zelo di far le nuove e conservar le
antiche. Se cossì è, e se tali saran
compresi e convitti; e se dopo che saranno
avertiti, mostrandosi incorrigibili, fermaranno i piedi de
l'ostinazione,
comanda Giove al giudizio, sotto pena della disgrazia sua
e di perdere quel
grado e preeminenza che tiene nel cielo, che le dissipe, disperda ed annulle; e
spinga con qualsivoglia forza, braccio ed industria sino a
la memoria del nome
di tanto pestifero germe.
E gionge a questo, che faccia intendere a tutte le
generazioni del mondo, sotto pena de la lor ruina, che s' armino in favor di esso
giudizio, in sino a tanto che sarà pienamente messo in
essecuzione il decreto di
Giove contra questa macchia del mondo.
20 \ SAUL.\ Credo, o Sofia, che Giove non cossì
rigidamente voglia al fine
risolvere questa misera sorte di uomini,
e non cominciarli a toccar di tal
sorte, che prima che gli done la final ruina, tente se le
possa corregere, e
facendoli accorgere della sua maldizione ed errore, le provoche a pentimento.
21 \ SOFIA\ Sì bene; però Giove ha ordinato al giudicio
che proceda in quella
maniera che ti dico. Vuole che li sieno tolti tutti que'
beni, che hanno
acquistati coloro che predicavano, lodavano ed insegnavano oprare, e che son
stati lasciati ed ordinati da color, che opravano e confidavano nell'opre, e che
sono stabiliti da questi che hanno creduto
con quell'opre, beneficii e
testamenti farsi grati a' dei; e cossì
vegnano ad execrare gli frutti ancora di
quelli arbori, che procedeno da quel seme tanto odioso a
essi; e vegnano a
mantenersi, conservarsi, defendersi e nodrirsi
solamente da que' frutti, da que'
redditi e suffragii, li quali apportano
ed hanno apportati loro e quelli che gli
credeno e che approvano e defendono
questa opinione. E che non gli sia oltre
lecito d' occupare con rapina e violenta
usurpazione quello che a commune
utilitade gli altri con libero e grato animo, per mezi
termini contrarii a
contrario fine, hanno parturito e seminato.
E cossì escano da quelle profanate
stanze e non mangino de quel pane iscomunicato; ma vadano ad abitare in quelle
pure ed incontaminate case,
e si pascano di que' cibi, che mediante la loro
riformata legge li sono stati destinati, e
novamente prodotti da questi
personaggi pii che fanno tanto poco stima de l'opere operate, e solamente per
una importuna, vile e stolta fantasia si stimano regi del
cielo e figli de li
dei, e più credeno ed attribuiscono a una vana, bovina ed asinina fiducia, ch'ad
un utile, reale e magnanimo effetto.
22 \ SAUL.\ Subito, o Sofia, si vedrà quanto siano atti a
guadagnarsi un palmo
di terra questi che sono cossì effusi e prodighi a donar regni de' cieli; e
conoscerassi de quelli altri imperatori
del cielo empireo quanto liberalmente de
la propria sustanza gli lor Mercurii, che forse, per la
poca fede che hanno
nell'opre di carità, ridurranno
in necessità di andar a lavorar i campi, o a far
altr'arte questi lor celesti messaggieri:
che, senza altrimente beccarsi il
cervello, le assicurano che non so qual
giustizia d'un altro è fatta giustizia
loro propria: dalla qual purità e giustizia per questo
solo vegnano esclusi, che
per sassinii, rapine, violenze
ed omicidii ch'abbiano fatti, si sgomentino,
e
per elemosine, atti di liberalitade,
misericordia e giustizia si confideno, si
attribuiscano e sperino punto.
23 \ SOFIA\ Come è possibile, o Saulino, che le conscienze talmente affette
possano giamai aver vero amore d'oprar bene, e vera
penitenza e timore di
commettere qualsivoglia ribaldaria, se per commessi errori
vegnono tanto
assicurati, e per opre di giustizia son
messi in tanta diffidenza?
24 \ SAUL.\ Tu vedi gli effetti, Sofia; perché è cosa vera
e certa, come essi
sono veri e certi, che, quando da qualsivoglia altra
professione e fede alcuno
si muove a questa, da quel che era già liberale, doviene
avaro, da quel ch'era
mite, è fatto insolente,
da umile lo vedi superbo, da donator del suo è rubbator
ed usurpator de l'altrui, da buono è ipocrita, da sincero è maligno, da semplice
è malizioso, da riconoscente
di sé è arrogantissimo, da abile a qualche bontà e
dottrina è prono ad ogni sorte d'ignoranza e ribaldaria;
ed in conclusione, da
quel che possea esser tristo, è dovenuto pessimo, che non
può esser peggiore.
Seconda parte del secondo dialogo.
1 \ SOFIA\ Or seguitiamo il proposito, quale
per l'advenimento di Mercurio ieri
2 \ SAUL.\ È ben tempo dopo che, donata la raggione de la collocazione e
situazione de' buoni numi in loco dove erano
quelle bestie, si vegga quali altri
sieno ordinati di succedere al luogo de l'altre; e se vi
piace, non vi sia grave
di farmi sempre intendere la raggione e causa. Eravamo
ieri su aver narrato,
come il padre Giove ha donata ispedizione ad Ercole; però
consequentemente per
la prima è da vedere, che cosa abbia fatto succedere in
suo luogo.
3 \ SOFIA\ Io, o Saulino, ho inteso in verità accaduto in
cielo altro che quel
tanto, che in fantasia, in sogno, in ombra, in spirito di
profezia vedde
Crantore circa il dibatto de la Ricchezza,
Voluptà, Sanità e Fortezza. Perché,
quando Giove ebbe escluso Ercole da là,
subito si mese avanti la Ricchezza, e
disse: - A me, o padre, conviene questo loco. - A cui
rispose Giove: - Per qual
caggione? - E lei: - Anzi mi maraviglio,
disse, che sin tanto abbi differito di
collocarmi, e prima che ti ricordassi
di me, hai non solo collocate altre dee ed
altri numi che mi denno cedere, ma oltre
hai sostenuto che bisognasse che io da
per me medesima venesse ad opponermi e presentarmi contra il pregiudizio mio e
torto che mi fate. - E Giove rispose: -Dite pur la vostra
causa, Ricchezza;
perché io non stimo d'averti fatto torto col non darti una de le stanze già
proviste; ma ancora credo di non fartene
con negarti la presente che è da
provedere: e forse ti potrai accorgere di peggio che non
ti pensi. - E che
peggio mi può e deve accadere per vostro giudizio, di quel
che m'è accaduto?
disse la Ricchezza. - Dimmi, con qual raggione m'hai preposta la Veritate, la
Prudenza, la Sofia, la Legge, il Giudicio, se io son
quella, per cui la Veritate
si stima, la Prudenza si dispone, la Sofia è preggiata,
la Legge regna, il
Giudicio dispone, e senza me la Verità è vile, la Prudenza
è sciagurata, la
Sofia è negletta, la Legge è muta, il Giudicio è zoppo;
perché io a la prima
dono campo, alla seconda do nervo,
alla terza lume, a la quarta autoritade, al
quinto forza; a tutte insieme giocundità
bellezza ed ornamento, e le libero da
fastidii e miserie? - Rispose Momo: - O Ricchezza, tu non
dici il vero più che
il falso; perché tu oltre sei quella per cui zoppica
il Giudizio, la Legge sta
in silenzio, la Sofia è calpestrata, la
Prudenza è incarcerata e la Verità è
depressa, quando ti fai compagna di buggiardi e ignoranti,
quando favorisci col
braccio de la sorte la pazzia, quando accendi
e cattivi gli animi ai piaceri,
quando amministri alla violenza, quando
resisti a la giustizia. Ed appresso, a
chi ti possiede non meno apporti fastidio
che giocondità, difformità che
bellezza, bruttezza che ornamento; e non sei quella, che dài fine a' fastidii e
miserie, ma che le muti e cangi
in altra specie. Sì che in opinione sei buona,
ma in verità sei più malvaggia; in apparenza
sei cara, ma in esistenza sei vile;
per fantasia sei utile, ma in effetto sei perniciosissima;
atteso che per tuo
magistero, quando investisci di te qualche
perverso (come per ordinario sempre
ti veggio in casa di scelerati, raro vicina ad uomini da
bene), là a basso hai
fatta la Veritade esclusa fuor de le cittadi a gli
deserti, hai rotte le gambe a
la Prudenza, hai fatta vergognar la Sofia,
hai chiusa la bocca a la Legge, non
hai fatto aver ardire al Giudicio, tutti hai resi
vilissimi. -Ed in questo, o
Momo, rispose la Ricchezza, puoi conoscere la mia potestate ed eccellenza: che
io, aprendo e serrando il pugno, e per comunicarmi o qua o là, fo che
questi
cinque numi vagliano, possano e facciano, o ver sieno
spreggiati, banditi e
ributtati; e per dirla, posso cacciarle
al cielo o ne l'inferno. - Qua rispose
Giove: - Non vogliamo in cielo e in queste sedie altro che
buoni numi. Da qua si
togliano que' che son rei, e quei che o
sono più rei che buoni, e quei che
indifferentemente son buoni e rei; tra gli quali io penso
che sei tu, che sei
buona con gli buoni, e pessima con gli
scelerati.
4 - Sai, o Giove, disse la Ricchezza, che io per me son
buona, e non sono per me
indifferente o neutra, o
d'una ed altra maniera, come dici, se non in quanto di
me altri bene si vogliano servire o male. - Qua rispose
Momo: - Tu dunque,
Ricchezza, sei una Dea maneggiabile, servibile,
contrattabile, e che non ti
governi da te stessa, e che non sei
veramente quella che reggi e disponi de
altri, ma di cui altri disponeno, e che sei retta da
altri; onde sei buona
quando altri ti maneggiano bene, sei mala quando sei mal
guidata; sei, dico,
buona in mano della Giustizia, della Sofia, della
Prudenza, della Religione,
della Legge, della Liberalità ed altri numi; sei ria se
gli contrarii di questi
ti maneggiano: come sono la violenza, l'avarizia,
l'ignoranza ed altri. Come,
dunque, da per te non sei né buona né ria, cossì credo
essere bene, se Giove il
consente, che per te non abbi né vergogna
né onore; e per consequenza non sii
degna d'aver propria stanza, né ad alto tra gli dei e numi
celesti, né a basso
tra gli inferi, ma che eternamente vadi da loco in loco,
da regione in regione.
5 Arrisero tutti gli dei al dir di Momo, e
Giove sentenziò cossì: - Sì che,
Ricchezza, quando sei di Giustizia, abitarai
nella stanza della Giustizia;
quando sei di Verità, sarai dove è l'eccellenza di quella;
quando sei di
Sapienza e Sofia, sederai nel solio suo;
quando di voluttuarii piaceri, tròvati
là dove sono; quando d'oro ed argento,
allora ti caccia ne le borse e casce;
quando di vino, oglio e frumento, va fìccate
ne le cantine e magazini; quando di
pecore, capre e buovi, va a pascolar con
essi e posa ne gli greggi ed armenti.
6 Cossì Giove l' impose quello che deve fare
quando si trova con gli pazzi, e
come si deve comportare quando è in casa di
sapienti; in che modo per l'avenire
perseverar debba a far come per il passato (forse perché
non si può far altro),
di farsi in certo modo facilmente trovare ed in certo modo
difficilmente. Ma
quella raggione e modo non la fece intendere a molti; se
non che Momo alzò la
voce e gli ne dié un'altra, se non fu quella medesima via,
cioè: - Nessuno ti
possa trovare senza che prima si sia pentito
d'aver avuto buona mente e sano
cervello. - Credo che volesse dire, che bisogna perdere la
considerazione ed il
giudicio di prudenza, non pensando mai
all'incertezza ed infidelità de tempi,
non avendo riguardo alla dubia ed instabile promessa del
mare, non credere a
cielo, non guardare a giustizia o a
ingiustizia, ad onore o vergogna, a bonaccia
o tempesta, ma tutto si commetta a la fortuna: - E che ti guardi di farti mai
domestica di quei che con troppo giudicio
ti cercano; e color meno ti veggano
che con più tendicoli, lacci e reti di providenza
ti perseguitano; ma per
l'ordinario va' dove son gli più insensati, pazzi, stracurati e stolti; ed in
conclusione, quando sei in terra, guàrdati
da' più savii come dal fuoco: e cossì
sempre accòstati e fatti familiare a gente semibestiali,
e tieni sempre la
medesima regola che tiene la fortuna.
7 \ SAUL.\ È ordinario, o Sofia, che gli più savii non son
gli più ricchi; o
perché si contentano di poco, e quel poco
stimano assai, se è sufficiente a la
vita; o per altre cause, che forse, mentre sono attenti a
imprese più degne, non
troppo vanno vagando qua e là per incontrarsi
a uno di questi numi, che son le
ricchezze o la fortuna. Ma séguita il tuo raggionamento.
8 \ SOFIA\ Non sì tosto la Povertà vedde la Ricchezza, sua
nemica, esclusa, che
con una più che povera grazia si fece innante; e disse che
per quella raggione,
che facea la Ricchezza indegna di quel loco, lei ne dovea
essere stimata
degnissima, per esser contraria a colei. A
cui rispose Momo: - Povertà, Povertà,
tu non sareste al tutto Povertà, se non fussi ancora
povera d'argumenti,
sillogismi e buone consequenze. Non per
questo, o misera, che siete contrarie,
séguita che tu debbi essere investita di
quello che lei è dispogliata o priva, e
tu debbi essere quel tanto che lei non è: come, verbigrazia
(poi che bisogna
donartelo ad intendere con essempio), tu
devi essere Giove e Momo, perché lei
non è Giove né Momo: ed in conclusione ciò che si niega di quella, debba essere
affirmato di te; perché quelli che son
più ricchi de dialettica che tu non sei,
sanno che li contrarii non son medesimi con positivi
e privativi,
contradittorii, varii, differenti,
altri, divisi, distinti e diversi. Sanno
ancora che per raggione di contrarietà séguita, che non
possiate essere insieme
in un loco; ma non che, dove non è quella e non può esser
quella, sii tu, o
possi esser tu. - Qua risero tutti li dei,
quando veddero Momo voler insegnar
logica a la Povertà; ed è rimasto questo
proverbio in cielo: Momo è maestro de
la Povertà, o ver: Momo insegna dialettica a la Povertà. E
questo lo dicono,
quando vogliono delleggiar qualche fatto scontrafatto. - Che dunque ti par che
si debba far di me, o Momo? - disse la Povertà. -
Determina presto, perché io
non sono sì ricca di paroli e concetti che possa disputar
con Momo, né sì
copiosa d'ingegno che possa molto imparar da lui.
9 Allora Momo dimandò a Giove per quella volta licenza, se
voleva che
determinasse. A cui Giove: - Ancora mi burli, o Momo? che
hai tanta licenza, che
sei più licenzioso (volsi dir licenziato) tu solo che tutti gli altri. Dona pur
sicuro la sentenza a costei; perché, se la sarà buona, l' approvaremo. - Allora
Momo disse: - Mi par congruo e condigno ch'ancor questa se la vada spasseggiando
per quelle piazze, nelle quali si vede andar circumforando
la Ricchezza, e corra
e discorra, vada e vegna per le medesime campagne;
perché (come vogliono gli
canoni del raziocinio) per raggione di
cotai contrarii questa non deve entrare
se non là onde quella fugge, e non succedere se non là
d'onde quella si parte; e
quella non deve succedere ed entrare se non là d'onde
questa si parte e fugge; e
sempre l'una sia a le spalli de l'altra, e l'una doni la
spinta a l'altra, non
toccandosi mai da faccia a faccia, ma
dove l'una ha il petto, l'altra abbia il
tergo, come se giocassero (come facciamo
noi tal volta) al giuoco de la rota del
10 \ SAUL.\ Che disse sopra di questo Giove con gli altri?
11 \ SOFIA\ Tutti confirmaro e ratificaro la sentenza.
12 \ SAUL.\ La Povertà che disse?
13 \ SOFIA\ Disse: - Non mi par cosa degna, o dei (se pur
il mio parer ha luogo,
e non sono a fatto priva di giudicio), che la condizion
mia debba essere al
tutto simile a quella de la Ricchezza. - A cui rispose
Momo: - Da l'antecedente,
che versate nel medesimo teatro e rapresentate la medesima tragedia o comedia,
non devi tirar questa consequenza, che vengate ad essere di medesima condizione,
quia contraria versantur circa idem. -
Vedo, o Momo, disse la Povertà, che tu ti
burli di me; che anco tu, che fai professione de dir il
vero e parlar
ingenuamente, mi dispreggi;
e questo non mi par che sia il tuo dovero, perché la
Povertà è più degnamente difesa tal volta, anzi il più de
le volte, che la
Ricchezza. - Che vuoi che ti faccia, rispose Momo, se tu
sei povera a fatto a
fatto? La Povertà non è degna de difensione,
se è povera di giudizio, di
raggione, di meriti e di sillogismi, come sei tu, che
m'hai ridutto a parlar
ancor per le regole analittiche delli Priori e Posteriori d'Aristotele.
14 \ SAUL.\ Che cosa me dici, Sofia? Dunque li dei
prendeno qualche volta
Aristotele in mano? studiano verbigrazia ne gli filosofi?
15 \ SOFIA\ Non ti dirò di vantaggio di quel ch'è su la
Pippa, la Nanna,
l' Antonia, il Burchiello,
l' Ancroia, ed un altro libro, che non si sa, ma è in
questione s'è di Ovidio o Virgilio,
ed io non me ne ricordo il nome, ed altri
simili.
16 \ SAUL.\ E pur adesso trattano cose
tanto gravi e seriose?
17 \ SOFIA\ E ti par che quelle non son seriose? non son
gravi? Saulino, se tu
fussi più filosofo, dico più accorto, credereste
che non è lezione, non è libro
che non sia essaminato da dei, e che, se non è a fatto
senza sale, non sia
maneggiato da dei; e che, se non è tutto balordesco,
non sia approvato e messo
con le catene nella biblioteca commune;
perché pigliano piacere nella moltiforme
representazione di tutte cose e frutti moltiformi
de tutti ingegni, perché loro
si compiaceno in tutte le cose che sono, e tutte le representazioni che si
fanno, non meno che essi hanno cura che sieno, e donano
ordine e permissione che
si facciano. E pensa ch'il giudicio de gli dei è altro che
il nostro commune, e
non tutto quello che è peccato a noi e secondo noi, è
peccato a essi e secondo
essi. Que' libri certo cossì, come le teologie,
non denno esser communi a gli
uomini ignoranti, che medesimi sono scelerati; perché ne ricevono mala
instituzione.
18 \ SAUL.\ Or non son libri fatti da uomini di mala fama,
disonesti e
dissoluti, e forse a mal fine?
19 \ SOFIA\ È vero; ma non sono senza la sua instituzione
e frutti della
cognizione de chi scrive, come scrive, perché ed onde
scrive, di che parla, come
ne parla, come s' inganna lui, come gli
altri s' ingannano di lui, come si declina
e come s' inclina a uno affetto virtuoso e
vizioso, come si muove il riso, il
fastidio, il piacere, la nausea; ed in tutto è sapienza e
providenza, ed in ogni
cosa è ogni cosa, e massime è l'uno dove è l'altro
contrario, e questo massime
si cava da quello.
20 \ SAUL.\ Or torniamo al proposito donde ne ha divertiti il nome d'Aristotele
e la fama de la Pippa. Come fu licenziata
la Povertà da Giove, dopo che era sì
21 \ SOFIA\ Io non voglio referir tutti gli ridicoli
propositi che passâro tra
quello e colei, la quale non meno momezzava
di Momo che di essa seppe momezzar
colui. Dechiarò Giove, che questa abbia di
privileggii e prorogative che non ha
quella in queste cose qua a basso.
22 \ SAUL.\ Dite le cose che sono.
23 \ SOFIA\ - Voglio, disse il padre, in prima, che tu,
Povertà, sii oculata, e
sappi ritornar facilmente là d'onde tal volta ti partiste, e discacciar con
maggior possa la Ricchezza; che per il contrario tu vegni
scacciata da quella la
qual voglio che sia perpetuamente cieca. Appresso voglio
che tu, Povertà, sii
alata, destra ed ispedita per le piume che son fatte
d'aquila o avoltore; ma ne
li piedi voglio che sii come un vecchio bove che tira il
grave aratro, che
profonda ne le vene de la terra: e la Ricchezza, per il
contrario, abbia l'ali
tarde e gravi, accomodandosi
quelle d'un' oca o cigno; ma gli piedi sieno di
velocissimo corsiero o
cervio, a fine che, quando lei fugge da qualche parte
adoprando gli piedi, tu con il batter de
l'ali vi ti facci presente; ed onde tu
con opra de le ali tue disloggi, quella
possa succedere con l'uso di suoi piedi:
di maniera che con quella medesima prestezza
che da lei sarai fuggita o
perseguitata, tu vegni a perseguitarla
e fuggirla.
24 \ SAUL.\ Perché non le fa o ambe due bene in piuma, o ambe due bene in piedi,
se niente meno se potrebbono accordare
di perseguitarsi e fuggirsi, o tardi o
presto?
25 \ SOFIA\ Perché, andando la Ricchezza sempre carca,
viene per la soma a
impacciar alcunamente l'ali, e la Povertà, andando sempre discalza, facilmente
per ruvidi camini viene ad essere offesa
negli piedi: però questa in vano arrebe
le piante, e quella le piume veloci.
26 \ SAUL.\ Questa risoluzione mi contenta. Or séguita.
27 \ SOFIA\ Oltre vuole, che la Povertà massimamente
séguite la Ricchezza, e sia
fuggita da quella quando si versa nelli palaggi terreni,
ed in quelle stanze
nelle quali ha il suo imperio la Fortuna; ma allor che ella
s'appiglia a cose
alte e rimosse dalla rabbia del tempo e di quell'altra
cieca, non voglio che
abbi tanto ardire o forza d' assalir per
farla fuggire e tôrgli il loco. Perché
non voglio che facilmente si parta da là dove con tanta
difficultade e dignitade
bisogna pervenire; e cossì, per a l'incontro, abbi tu
quella fermezza nelle cose
inferiori che lei può avere nelle superiori. - Anzi,
soggionse Giove, voglio che
in certo modo in voi vegna ad essere una certa concordia
d'una non leggiera
sorte, ma di grandissima importanza; a fin
che non pensi, che con esser bandita
dal cielo vegni più relegata ne l'inferno,
che, per il contrario, con esser
tolta da l'inferno, vegni collocata in
cielo: di maniera che la condizion de la
Ricchezza, la quale ho detta, vegna incomparabilmente
meglior che la tua. Però
voglio, che tanto si manche che l'una
discacce l'altra dal loco del suo maggior
domìno, che più tosto l'una si mantegna e fomente
per l'altra, di maniera che
tra voi sia strettissima amicizia e
familiaritade.
28 \ SAUL.\ Fatemi presto intendere come sia questo.
29 \ SOFIA\ Disse Giove, soggiongendo a
quel ch'avea detto: -Tu, Povertà, quando
sarai di cose inferiori, potrai esser gionta, alligata
e stretta alla Ricchezza
di cose superiori, quanto mai la tua contraria Ricchezza
di cose inferiori esser
possa; perché con questa nessuno, che è savio e vuole
sapere, stimarà giamai
posser aggiongersi a cose grandi, atteso
che alla filosofia donano impedimento
le ricchezze, e la Povertade porge camino sicuro ed
ispedito: essendo che non
può essere la contemplazione, ove è circonstante
la turba di molti servi, dove è
importuna la moltitudine di debitori e creditori, computi di mercanti,
raggioni
di villici, la pastura di tante pancie mal
avezze, l' insidie di tanti ladroni,
occhii de avidi tiranni
ed exazioni de infidi ministri: di maniera
che nessuno
può gustar che cosa sia tranquillità di
spirito, se non è povero o simile al
povero. Appresso voglio che sia grande colui che ne la
povertà è ricco, perché
si contenta; e sia vile e servo colui che
ne le ricchezze è povero, perché non è
sazio. Tu sarai sicura e tranquilla;
lei turbida, sollecita, suspetta ed
inquieta; tu sarai più grande e magnifica, dispreggiandola, che esser mai possa
lei, riputandosi e stimandosi;
a te, per isbramarti, voglio che baste la sola
opinione; ma per far lei satolla, non
voglio che sia sufficiente tutta la
possessione de le cose. Voglio che tu sii più grande con
togliere dalle
cupiditadi, che non possa esser quella con
aggiongere alle possessioni. A te
voglio che siano aperti gli amici, a quella occolti gli
nemici. Tu con la legge
della natura voglio che sie ricca, quella con tutti studii
ed industrie civili
poverissima; perché non colui che ha poco,
ma quello che molto desidera, è
veramente povero. A te (se strengerai il sacco della cupidità) il necessario
sarà assai, e poco sarà bastante; ed a lei niente baste,
benché ogni cosa con le
spalancate braccia apprenda. Tu, chiudendo il desiderio tuo, potrai contendere
de la felicità con Giove; quella, amplificando
le fimbrie de la concupiscenza,
più e più si sommerga al baratro de le
miserie. - Conchiuso ch'ebbe Giove
l'espedizione di costei, contentissima
chiese licenza di far il suo camino; e la
Ricchezza fece segno di volersi un'altra volta accostar,
per sollicitar il
conseglio con qualche nuova proposta; ma non gli fu lecito
di giongere più
paroli.
30 - Via, via! li disse Momo. Non odi
quanti ti chiamano, ti cridano, ti
priegano, ti sacrificano,
ti piangono, e con sì gran voti e stridi, che
ormai
hanno tutti noi altri assorditi, ti appellano? E tu ti vai tanto trattenendo e
strafuggendo per queste parti? Va via
presto, a la mal'ora, se non ti piace
andar a la buona. - Non t'impacciar di questo, o Momo, li
disse il padre Giove,
lascia che si parta e vada, quando gli pare e piace. -
Ella mi par in vero,
disse Momo, cosa degna di compassione ed una specie
d'ingiustizia a riguardo de
chi non vi provede, e puote, che questa meno vada a chi
più la chiama e
richiama, ed a chi più la merita, meno
s'accosta. - Voglio, disse Giove, quel
che vuole il fato.
31 \ SAUL.\ Fanne altrimente, dovea dire Momo.
32 \ SOFIA\ - Io voglio, ch'al rispetto de le cose là
basso questa sia sorda: e
che giamai, per esser chiamata, risponda o vegna; ma,
guidata più da la sorte e
la fortuna, vada a la cieca ed a tastoni
ad comunicarsi a colui, che verrà a
rancontrarsegli tra la moltitudine. -
Quindi averrà, disse Saturno, che si
comunicarà più presto ad uno de gran
poltroni e forfanti, il numero de quali è
come l' arena che ad alcuno che sia mediocremente uomo da bene: e più tosto ad
uno di questi mediocri che sono assai, che ad uno de più
principali che son
pochissimi; e forse mai, anzi certamente mai a colui che è
più meritevole che
gli altri, ed unico individuo.
33 \ SAUL.\ Che disse Giove a questo?
34 \ SOFIA\ - Cossì bisogna che sia; è donata dal fato
questa condizione a la
Povertà, che la sia chiamata con desiderio da rarissimi e
pochissimi, ma che
ella si comuniche e si presente a gli assaissimi e moltitudine più grande; la
Ricchezza, per il contrario, chiamata, desiderata, invocata, adorata ed
aspettata da quasi tutti, vada a far copia di sé a
rarissimi, e quei che manco
la coltivano ed aspettano. Questa sia
sorda a fatto, che da quantunque grande
strepito e fragore non
si smuova e sia dura e salda che a pena tirata da rampini
ed argani si approssime a
chi la procaccia; e quella auritissima, prestissima,
prontissima, che ad ogni minimo sibilo,
cenno, da quantunque lontana parte
chiamata, subito sia presente: oltre che per l'ordinario
la si trova a la casa
ed a te spalli de chi non solo non la chiama, ma ed oltre
con ogni diligenza da
lei s'asconde.
35 Mentre la Ricchezza e la Povertà cedevano
al luogo: - Olà, disse Momo, che
ombra è quella familiare a que' dua
contrarii, e che è con la Ricchezza e che è
con la Povertà? Io soglio vedere d'un
medesimo corpo ombre diverse; ma de
diversi corpi medesima ombra, non giamai, che io abbia
notato, eccetto
ch'adesso. - A cui rispose Apollo: - Dove non è lume,
tutto è un'ombra; ancor
che sieno diverse ombre, se son senza lume, si confondeno e sono una: come
quando son molti lumi senza che qualche densità
di corpo opaco se gli oppona o
interpona, tutti concorreno a far un splendore. -Qua non
mi par che debbia esser
cossì: disse Momo; perché, dove è la Ricchezza, ed è a
fatto esclusa la Povertà,
e dove è la Povertà, suppositalmente
distinta da la Ricchezza, non come doi lumi
concorrenti in un soggetto illuminabile,
si vede quella essere un'ombra che è
con l'una e con l'altra. - Guardala bene, o
Momo, disse Mercurio, e vedrai che
non è un'ombra. - Non dissi che è ombra, rispose Momo, ma
che è gionta a quelli
doi numi, come una medesima ombra a doi corpi. Oh adesso considero; la mi par la
Avarizia, che è una ombra: è le tenebre che sono della
Ricchezza, ed è le
tenebre che sono de la Povertà. - Cossì è, disse Mercurio:
è ella figlia e
compagna della Povertà, nemicissima de la
sua madre, e che quanto può la fugge;
inamorata ed invaghita de
la Ricchezza, alla quale, quantunque sia giunta,
sempre sente il rigor de la madre che la tormenta: e
benché li sia appresso, li
è lungi, e benché li sia lungi, li è appresso, perché, se
si gli discosta,
secondo la verità gli è intrinseca, e gionta secondo l' esistimazione. E non vedi
che essendo gionta e compagna de la Ricchezza, fa che la
Ricchezza non sia
Ricchezza, e lunghi essendo da la Povertà, fa che la
Povertà non sia Povertà?
Queste tenebre, questa oscurità, questa ombra è quella che
fa la Povertà esser
mala e la Ricchezza non esser bene; e non si trova senza malignar l'una de le
due, o ambe due insieme; rarissime volte
né l'una né l'altra: e questo è quando
sono da ogni lato circondate dalla luce
della raggione ed intelletto. - Qua
dimandò Momo a Mercurio, che li facesse intendere come
quella faceva la
Ricchezza non essere ricchezze. A cui rispose, che il
ricco avaro è poverissimo;
perché l'avarizia non è dove sono ricchezze, se non vi è
anco la Povertà; la
quale non men veramente se vi trova per virtù de
l'affetto, che ritrovar si
possa per virtù d'effetto; di sorte che questa ombra, al
suo marcio dispetto,
mai si può discostare da la madre più che
da se stessa.
36 Mentre questo dicevano, Momo, il quale
non è senza buonissima vista (benché
non sempre vegga a la prima), con avere messo più
d'attenzione: - O Mercurio,
disse, quello ch'io ti dicevo essere come
un'ombra, adesso scorgo che son tante
bestie insieme insieme; perché la veggio canina,
porcina, arietina, scimica,
orsina, aquilina, corvina,
falconina, leonina, asinina, e quante nine e
nine
bestie giamai fûro; e tante bestie è pur un corpo. La mi
par certo il pantamorfo
de gli animali bruti. - Dite meglio, rispose Mercurio, che
è una bestia
moltiforme; la pare una, ed è una; ma non è uniforme,
come è proprio de vizii de
aver molte forme, percioché sono informi e non hanno
propria faccia, al
contrario de le virtudi. Qualmente vedi essere la sua
nemica liberalitade, la
quale è semplice ed una; la giustizia è una e semplice;
come ancora vedi la
sanità essere una, e gli morbi innumerabili. - Mentre
Mercurio diceva questo,
Momo gl'interruppe il raggionamento, e gli disse: - Io
veggio, che la ha tre
teste in sua mal'ora; pensavo, o
Mercurio, che la vista mi fusse turbata, quando
di questa bestia sopra un busto scorgevo
uno ed uno ed un altro capo; ma, poi
che ho voltato l'occhio per tutto, e visto che non è altro
che mi paia
similmente, conchiudo che non è altrimente che come io
veggio. - Tu vedi molto
bene, rispose Mercurio. Di quelle tre teste l'una è la illiberalità, l'altra è
il brutto guadagno, l'altra è la tenacità.
- Dimandò Momo, se quelle parlavano;
e Mercurio rispose che sì, e che la prima dice: Meglio
esser più ricco che esser
stimato più liberale e grato; la seconda: Non ti morir di fame per esser
gentiluomo; la terza dice: Se non mi è
onore, mi è utile. - E pur non hanno più
che due braccia? disse Momo. - Bastano le
due mani, rispose Mercurio, de le
quali la destra è aperta aperta, larga larga, per
prendere; l'altra è chiusa
chiusa, stretta stretta, per tenere, e porgere come per distillazione e per
lambicco, senza raggione di tempo e loco,
come ancor senza raggione di misura. -
Accostatevi alquanto più a me, tu,
Ricchezza e Povertà, disse Momo, a fin che io
possa meglior vedere la grazia di questa vostra bella
pedissequa. - Il che
essendo fatto, disse Momo: - È un volto, son più volti; è
una testa, son più
teste; è femina, è femina; ha la testa molto picciola,
benché la faccia sia più
che mediocre; è vecchia, è vile, è
sordida, ha 'l viso rimesso, è di color nero;
la veggio rugosa, ed ha capelli retti ed adri, occhi attentivi, bocca aperta ed
anelante, e naso ed artigli
adunchi; (maraviglia) essendo un animal pusillo,
ha
il ventre tanto capace e voraginoso, imbecille, mercenario e servile, ch'il
volto drizzato a le stelle incurva. Zappa,
s' infossa; e per trovar qualche cosa,
s'immerge al profondo de la terra, e dando
le spalli a la luce, a gli antri
tende ed a le grotte, dove giamai giunse
differenza del giorno e de la notte;
ingrata, a la cui perversa speranza giamai fia molto,
assai o bastante quel che
si dona, e che quanto più cape tanto si fa più cupa: come
la fiamma che più
vorace si fa quanto è più grande. Manda,
manda, scaccia, scaccia presto, o
Giove, da questi tenimenti la Povertà e la Ricchezza
insieme, e non permettere
che s' accostino alle stanze de dei, se non
vegnono senza questa vile ed
abominevol fiera! - Rispose Giove: - Le vi verranno addosso ed appresso, come
voi vi disporrete a riceverle.
Per il presente se ne vadano con la già fatta
risoluzione, e venemo noi presto al fatto nostro di
determinare il nume
possessor di questo campo.
37 Ed ecco, mentre il padre degli dei si volta in circa,
da per se medesima
impudentemente e con una non insolita
arroganza si fece innante la Fortuna, e
disse: - Non è bene, o Dei consulari, e
tu, o gran sentenziator Giove, che, dove
parlano e possono essere tanto udite la Povertà e
Ricchezza, io sia veduta come
pusillanime tacere per viltade, e non mostrarmi, e con ogni raggione risentirmi.
Io, che son tanto degna e tanto potente, che metto avanti
la Ricchezza, la guido
e spingo dove mi pare e piace, d'onde
voglio la scaccio e dove voglio la
conduco, con oprar la successione e
vicissitudine de quella con la Povertade; ed
ognun sa che la felicitade di beni esterni non si può riferir più alla
Ricchezza, come a suo principio, che a me; sicome la beltà
della musica ed
eccellenza de l'armonia da qualcuno non si deve più
principalmente referire alla
lira ed instrumento, che a l'arte ed a l'artefice che le
maneggia. Io son quella
dea divina ed eccellente, tanto desiderata, tanto cercata,
tanto tenuta cara,
per cui per il più de le volte è ringraziato Giove, dalla
cui mano aperta
procede la ricchezza, e dalle cui palme chiuse
tutto il mondo plora, e si
metteno sozzopra le citadi,
regni ed imperii. Chi mai offre voti alla Ricchezza
o alla Povertà? chi le ringrazia mai? Ognuno che vuole e
brama quelle, chiama
me, invoca me, sacrifica a
me; chiunque viene contento per quelle, ringracia me,
rende mercé alla Fortuna, per la Fortuna pone al foco gli aromati, per la
Fortuna fumano gli altari. E che sono una causa, la quale
quanto son più incerta
tanto sono più veneranda e formidanda,
e tanto son desiderabile ed appetibile
quanto mi faccio meno compagna e familiare; perché ordinariamente nelle cose
meno aperte, più occolte e maggiormente secrete
si trova più dignità e maestade.
Io che col mio splendore infosco la
virtude, denigro la veritade, domo e
dispreggio la maggior e meglior parte di queste dee e dei
che veggio
apparecchiati e messi come in ordine per prendersi piazza
in cielo; ed io che
ancor qua, in presenza di tale e tanto senato, sola metto
terrore a tutti;
perché (benché non ho la vista che mi serva) ho pur
orecchie, per le quali
comprendo, ad una gran parte de loro, battere e percuotersi gli denti per il
timore che concepeno dalla mia formidabile presenza; quantunque con tutto ciò
non perdano l'ardire e presunzione di mettersi avanti, a
farsi nominare, dove
prima non è stato disposto della mia dignitade; che ho
sovente, e più che
sovente, imperio sopra la Raggione, Veritade, Sofia,
Giustizia ed altri numi; li
quali, se non vogliono mentire di quello che è a tutto
l'universo evidentissimo,
potranno dire se possono apportar computo
del numero de le volte che le ho
buttate giù da le catedre,
sedie e tribunali loro, ed a mia posta le ho
reprimute, legate, rinchiuse
ed incarcerate. Ed anco per mia mercé poi ed altre
volte hanno potuto uscire, liberarsi, ristabilirse e riconfirmarse, mai senza
timore delle mie disgrazie. -Momo disse:
- Comunemente, o cieca madonna, tutti
gli altri dei aspettano la retribuzion di
queste sedie per l'opre buone ch'han
fatte, facciono e posson fare: e per tali
il senato s'è proposto di premiar
quelli; e tu, mentre fai la causa tua, ne ameni
la lista e processo di que' tuoi
delitti per gli quali non solo dereste
esser bandita dal cielo, ma e da la terra
ancora. - Rispose la Fortuna, che lei non era men buona
che altri boni; e che la
fusse tale, non era male; perché, quanto il fato dispone,
tutto è bene; e se la
natura sua fusse tale, come de la vipera, che è
naturalmente velenosa, in questo
non sarrebe sua colpa, ma o de la natura, o d'altro, che
l'ha talmente
instituita. Oltre che nessuna cosa è
absolutamente mala; perché la vipera non è
mortale e tossicosa a la vipera; né il
drago, il leone, l'orso a l'orso, al
leone, al drago; ma ogni cosa è mala a rispetto di
qualch'altro; come voi, dei
virtuosi, siete mali ad riguardo de viziosi, quei del
giorno e de la luce son
mali a quei de la notte ed oscuritade: e
voi tra voi siete buoni, e lor tra loro
son buoni; come aviene anco ne le sette del mondo nemiche,
dove gli contrarii
tra essi se chiamano figli de dei e giusti; e non meno
questi di quelli, che
quelli di questi, li più principali e più onorati chiamano
peggiori e più
riprovati. Io, dunque, Fortuna, quantunque
a rispetto d'alcuni sia reproba, a
rispetto d'altri son divinamente buona; ed
è sentenza passata della maggior
parte del mondo, che la fortuna de gli omini pende dal
cielo; onde non è stella
minima né grande, che appaia nel firmamento, da cui non si
dica ch'io dispenso.
Qua rispose Mercurio, dicendo che troppo equivocamente
era preso il suo nome:
perché tal volta per la Fortuna non è altro che uno
incerto evento de le cose;
la quale incertezza a l'occhio de la providenza è nulla,
benché sia massima a
l'occhio de mortali. - La Fortuna non udiva
questo, ma seguitava, ed a quel
ch'avea detto, aggiunse che gli più egregii
ed eccellenti filosofi del mondo,
quali son stati Empedocle ed Epicuro,
attribuiscono più a lei che a Giove
istesso, anzi che a tutto il concilio de dei insieme.
-Cossì tutti gli altri,
diceva, e me intendeno Dea, e me intendeno celeste Dea,
come credo che non vi
sia novo a l'orecchie questo verso, il quale non è putto abecedario che non
sappia recitare: Te facimus,
Fortuna, deam, caeloque locamus.
38 E voglio ch' intendiate, o Dei, con
quanta verità da alcuni son detta pazza,
stolta, inconsiderata, mentre son essi sì
pazzi, sì stolti, sì inconsiderati che
non sanno apportar raggione de l'esser mio; ed onde trovo
di que' che son
stimati più dotti che gli altri, quali in effetto dimostrano e conchiudeno il
contrario, per quanto son costretti dal
vero; talmente mi dicono irrazionale e
senza discorso, che non per questo m'intendeno brutale e sciocca, atteso che con
tal negazione non vogliono detraermi, ma attribuirmi di vantaggio; come ed io
tal volta voglio negar cose piccole
per concedere le maggiori. Non son, dunque,
da essi compresa come chi sia ed opre sotto la raggione e
con la raggione; ma
sopra ogni raggione, sopra ogni discorso ed ogni ingegno.
Lascio che pur in
effetto s' accorgeno e confessano,
ch'io ottegno ed esercito il governo e regno
massime sopra gli razionali, intelligenti
e divini: e non è savio che dica me
effettuar col mio braccio sopra cose prive di raggione ed
intelletto, quai sono
le pietre, le bestie, gli fanciulli, gli forsennati
ed altri che non hanno
apprensione di causa finale e non possono oprare per il
fine. - Te dirò, disse
Minerva, o Fortuna, per qual caggione ti dicono senza
discorso e raggione. A chi
manca qualche senso, manca qualche scienza, e massime
quella che è secondo quel
senso. Considera di te, tu ora essendo priva del lume de
gli occhi, li quali son
la massima causa della scienza. - Rispose la Fortuna, che
Minerva o s' ingannava
lei, o voleva ingannar la Fortuna; e si confidava di farlo, perché la vedea
cieca: -Ma, quantunque io sia priva d'occhio, non son però
priva.d'orecchio ed
intelletto, - gli disse.
39 \ SAUL.\ E credi che sia vero questo, o Sofia?
40 \ SOFIA\ Ascolta, e vedrai come sa distinguere, e come
non gli sono occolte
le filosofie e, tra l'altre cose, la
Metafisica d'Aristotele. - Io, diceva, so
che si trova chi dica la vista essere massimamente
desiderata per il sapere; ma
giamai conobbi sì stolto che dica la vista
fare massimamente conoscere. E quando
alcuno disse, quella essere massimamente desiderata, non
voleva per tanto, che
quella fusse massimamente necessaria, se non per la
cognizione di certe cose:
quai sono colori, figure, simmetrie
corporali, bellezze, vaghezze ed altre
visibili che più tosto sogliono perturbar la fantasia ed alienar l'intelletto;
ma non che fusse necessaria assolutamente per le tutte o
megliori specie di
cognizione, perché sapea molto bene che molti, per dovenir
sapienti, s'hanno
cavati gli occhi; e di quei che o per
sorte o per natura son stati ciechi, molti
son visti più mirabili, come ti potrei
mostrar assai Democriti, molti Tiresii,
molti Omeri e molti come il Cieco d' Adria. Appresso credo che sai distinguere,
se sei Minerva, che, quando un certo filosofo Stagirita
disse che la vista è
massimamente desiderata per il sapere, non comparava
la vista con altre specie
di mezzi per conoscere, come con l'udito, con la cogitazione, con l'intelletto;
ma facea comparazione tra questo fine de la vista, che è
il sapere, e altro
fine, che la medesima si possa proponere. Però, se non ti rincresce d'andar sin
ai campi Elisii a raggionar con lui (se
pur non ha indi fatta partenza per altra
vita, e bevuto de l'onde di Lete), vedrai che lui farà
questa chiosa: Noi
desideramo la vista massime per questo fine di sapere; e
non quell'altra: Noi
desideramo tra gli altri sensi massime la vista per
sapere.
41 \ SAUL.\ È maraviglia, o Sofia, che la Fortuna sappia
discorrere meglio, e
meglio intender gli testi che Minerva, la
quale è soprastante a queste
intelligenze.
42 \ SOFIA\ Non ti maravigliare; perché, quando
profondamente considerarai, e
quando pratticarai e conversarai
ben bene, trovarai che li graduati dei de le
scienze e de l' eloquenze e de gli giudizii non sono più giudiziosi, più savi e
più eloquenti de gli altri. Or, per seguitare il proposito della causa sua, che
faceva la Fortuna nel senato, disse, parlando a tutti: -
Niente, niente, o dei,
mi toglie la cecità, niente che vaglia, niente che faccia
alla perfezione de
l'esser mio; per ciò che, s'io non fusse cieca, non sarei
Fortuna, e tanto manca
che per questa cecità possiate disminuire
o attenuar la gloria di miei meriti,
che da questa medesima prendo argumento
della grandezza ed eccellenza di quelli:
atteso che da quella verrò a convencere
ch'io sono meno astratta da gli atti
della considerazione, e non posso esser ingiusta nelle distribuzioni. - Disse
Mercurio a Minerva: - Non arrai fatto poco, quando arrai
dimostrato questo. - E
soggionse la Fortuna: - Alla mia giustizia conviene essere
tale; alla vera
giustizia non conviene, non quadra, anzi ripugna
ed oltraggia l'opra de gli
occhi. Gli occhi son fatti per distinguere e conoscere le
differenze (non voglio
per ora mostrar quanto sovente per la vista sono ingannati quei che giudicano);
io sono una giustizia che non ho da distinguere, non ho da
far differenze; ma
come tutti sono principalmente, realmente e finalmente uno
ente, una cosa
medesima (perché lo ente, uno e vero son medesimo), cossì
ho da ponere tutti in
certa equalità, stimar tutti parimente, aver ogni cosa per
uno, e non esser più
pronta a riguardare, a chiamar uno che un
altro, e non più disposta a donar ad
uno che ad un altro, ed essere più inclinata
al prossimo che al lontano. Non
veggio mitre, toghe, corone, arti,
ingegni; non scorgo meriti e demeriti;
perché, se pur quelli si trovano, non son cosa da natura
altra ed altra in
questo ed in quello, ma certissimamente per circostanze ed
occasione, o
accidente che s'offre, si rancontra e scorre in questo o in quello; e però,
quando dono, non vedo a chi dono; quando toglio, non vedo
a chi toglio: acciò
che in questo modo io vegna a trattar tutti equalmente e
senza differenza
alcuna. E con questo certamente io vegno ad intendere e
fare tutte le cose
equali e giuste, e giusta- ed equalmente
dispenso a tutti. Tutti metto dentro
d'un'urna, e nel ventre capacissimo di
quella tutti confondo, inbroglio ed
exagito; e poi, zara a chi
tocca; e chi l'ha buona, ben per lui, e chi l'ha
mala, mal per lui! In questo modo, dentro l'urna de la
Fortuna non è differente
il più grande dal più picciolo; anzi là tutti sono
equalmente grandi ed
equalmente piccioli, perché in essi s'intende differenza
da altri che da me:
cioè prima che entrino ne l'urna, e dopo
che esceno da l'urna. Mentre son
dentro, tutti vegnono dalla medesima mano, nel medesimo
vase, con medesima
scossa isvoltati. Però, quando poi si
prendeno le sorti, non è raggionevole che
colui, a chi tocca mala riuscita, si lamente
o di chi tiene l'urna, o de l'urna,
o de la scossa, o di chi mette la mano a l'urna; ma deve,
con la meglior e
maggior pazienza ch'ei puote, comportar quel ch'ha
disposto e come ha disposto,
o è disposto il Fato: atteso che, quanto al rimanente, lui
è stato equalmente
scritto, la sua schedula era uguale a
quella de tutti gli altri, è stato
parimente annumerato, messo dentro, scrollato. Io dunque, che tratto tutto il
mondo equalmente, e tutto ho per una massa,
di cui nessuna parte stimo più degna
ed indegna de l'altra, per esser vase d' opprobrio;
io che getto tutti nella
medesima urna della mutazione e moto, sono equale a tutti,
tutti equalmente
remiro, o non remiro alcuno particulare più che l'altro,
vegno ad esser
giustissima ancor ch'a tutti voi il
contrario appaia. Or che a la mano, che
s' intrude a l'urna, prende e cava le
sorti, per chi tocca il male, e per chi
tocca il bene, occorra gran numero d'indegni e raro
occorrano meritevoli: questo
procede dalla inequalità, iniquità ed ingiustizia di voi
altri, che non fate
tutti equali, e che avete gli occhi delle comparazioni,
distinzioni, imparitadi
ed ordini, con gli quali apprendete e fate
differenze. Da voi, da voi, dico,
proviene ogni inequalità, ogni iniquitade;
perché la dea Bontade non equalmente
si dona a tutti; la Sapienza non si communica a tutti con
medesima misura; la
Temperanza si trova in pochi; a rarissimi si mostra la
Veritade. Cossì voi altri
numi buoni siete scarsi, siete parzialissimi,
facendo le distantissime
differenze, le smisuratissime inequalitadi
e le confusissime sproporzioni nelle
cose particolari. Non sono, non son io iniqua, che senza
differenza guardo
tutti, ed a cui tutti sono come d'un colore,
come d'un merito, come d'una sorte.
Per voi aviene, che, quando la mia mano cava le sorti,
occorrano più
frequentemente, non solo al male, ma ancora al bene, non
solo a gl' infortunii,
ma ancora a le fortune, più per l'ordinario gli scelerati
che gli buoni, più
gl' insipidi che gli sapienti, più gli
falsi che gli veraci. Perché questo?
perché? Viene la Prudenza e getta ne l'urna non più che
doi o tre nomi; viene la
Sofia e non ve ne mette più che quattro o cinque; viene la
Verità e non ve ne
lascia più che uno, e meno, se meno si potesse: e poi di
cento millenarii che
son versati ne l'urna, volete che alla sortilega
mano più presto occorra uno di
questi otto o nove, che di otto o novecento
mila. Or fate voi il contrario! Fa',
dico, tu, Virtù, che gli virtuosi sieno più che gli
viziosi; fa' tu, Sapienza,
che il numero de savii sia più grande che quello de
stolti; fa' tu, Verità, che
vegni aperta e manifesta a la più gran
parte: e certo certo a gli ordinarii
premii e casi incontraranno più de le
vostre genti che de gli loro oppositi.
Fate che sieno tutti giusti, veraci, savii e buoni; e
certo certo non sarà mai
grado o dignità ch'io dispense, che possa toccare a
buggiardi, a iniqui, a
pazzi. Non son, dunque, più ingiusta io che tratto e muovo
tutti equalmente, che
voi altri che non fate tutti equali. Tal che, quando
aviene che un poltrone o
forfante monta ad esser principe o ricco, non è per mia
colpa, ma per iniquità
di voi altri che, per esser scarsi del lume e splendor
vostro, non lo
sforfantaste o spoltronaste
prima, o non lo spoltronate e sforfantate al
presente, o almeno appresso lo vegnate a
purgar della forfantesca poltronaria, a
fine che un tale non presieda. Non è
errore che sia fatto un prencipe, ma che
sia fatto prencipe un forfante. Or essendo due cose, cioè
principato e
forfantaria, il vizio certamente non consiste nel
principato che dono io, ma ne
la forfanteria, che lasciate esser voi. Io
perché muovo l'urna e caccio le
sorti, non riguardo più a lui che ad un altro; e però non
l'ho determinato prima
ad esser principe o ricco (benché bisogna che
determinatamente alla mano uno
occorra tra tutti gli altri); ma voi, che fate le
distinzioni, con gli occhi
mirando e communicandovi a
chi più ed a chi meno, a chi troppo ed a chi niente,
siete venuti a lasciar costui determinatamente forfante e
poltrone. Se dunque,
la iniquità consiste non in fare un prencipe, e non in arricchirlo, ma in
determinare un suggetto di forfantaria e poltronaria, non
verrò io ad essere
iniqua, ma voi. Ecco dunque, come il Fato m'ha fatto equissima, e non mi può
aver fatta iniqua, perché mi fa essere senz'occhi, a fin
che per questo vegna a
posser equalmente graduar tutti. - Qua
soggionse Momo dicendo: -Non ti diciam
iniqua per gli occhi, ma per la mano. - A cui quella
rispose: - Né meno per la
mano, o Momo; perché non son più io causa del male, che le
prendo come vegnono,
che quelli che non vegnono come le prendo: voglio dire,
che non vegnono cossì
senza differenza come senza differenza le piglio.
Non son io causa del male, se
le prendo come occorreno; ma essi che mi
se presentano quali sono, ed altri che
non le fanno essere altrimente. Non son perversa io, che
cieca indifferentemente
stendo la mano a quel che si presenta chiaro o oscuro, ma chi tali le fa, e chi
tali le lascia, e me l' invia. - Momo
suggionse: - Ma, quando tutti venessero
indifferenti, uguali e simili, non mancareste per tanto ad essere pur iniqua:
perché, essendo tutti equalmente degni di prencipato,
tu non verrai a farli
tutti prencipe, ma un solo tra quelli. - Rispose sorridendo la Fortuna:
Parliamo, o Momo, de chi è ingiusto, e non parliamo de chi
sarrebe ingiusto. E
certo, con questo tuo modo di proponere o rispondere, tu
mi pari assai a
sufficienza convitto, poiché da quel che è in fatto, sei proceduto a quel che
sarrebe; e da quel che non puoi dire ch'io sono iniqua,
vai a dire ch'io sarrei
iniqua. Rimane dunque, secondo la tua concessione,
ch'io son giusta, ma sarrei
ingiusta; e che voi siete ingiusti, ma sarreste giusti. Anzi, a quel ch'è detto
aggiongo, che non solamente non sono, ma né pure sarrei
men giusta allora,
quando voi m' offressi tutti uguali;
perché, quanto a quello che è impossibile,
non s'attende giustizia né ingiustizia. Or non è possibile
che un principato sia
donato a tutti; non è possibile che tutti abbiano una
sorte; ma è possibile ch'a
tutti sia ugualmente offerta.
Da questo possibile séguita il necessario, cioè
che de tutti bisogna che riesca uno; ed in
questo non consiste l'ingiustizia ed
il male; perché non è possibile che sia più ch'uno; ma
l'errore consiste in quel
che séguita, cioè che quell'uno è vile, che quell'uno è
forfante, che quell'uno
non è virtuoso; e di questo male non è causa la Fortuna
che dona l'esser
prencipe ed esser facultoso; ma la dea
Virtù che non gli dona, né gli donò esser
virtuoso. - Molto eccellentemente ha fatte le sue raggioni
la Fortuna, disse il
padre Giove, e per ogni modo mi par degna d'aver sedia in
cielo; ma ch'abbia una
sedia propria, non mi par convenevole, essendo che non
n'ha meno che sono le
stelle; perché la Fortuna è in tutte quelle non meno che
ne la terra, atteso che
quelle non manco son mondi che la terra. Oltre, secondo la
generale esistimazion
de gli uomini, da tutte si dice pendere la
Fortuna: e certo, se avessero più
copia d'intelletto, direbono qualche cosa
di vantaggio. Però (dica Momo quel che
gli piace), essendo che le tue raggioni, o Dea, mi paiono
pur troppo efficaci,
conchiudo che, se non offriranno in
contrario de la tua causa altre allegazioni,
che vagliano più di queste sin ora apportate, io non
voglio ardire di definirti
stanza, come già volesse astrengerti o relegarti a quella; ma ti dono, anzi ti
lascio in quella potestà che mostri avere in tutto il
cielo: poi che per te
stessa tu hai tanta autorità, che puoi aprirti
que' luoghi che son chiusi a
Giove istesso insieme con tutti gli altri dei. E non
voglio dir più circa quello
per il che ti siamo tutti insieme ubligati assai assai.
Tu, disserrando tutte le
porte, ed aprendoti tutt'i
camini e disponendoti tutte le stanze, fai tue tutte
le cose aliene; e però non manca che le
sedie che son degli altri, non siano pur
tue; per ciò che quanto è sotto il fato della mutazione,
tutto tutto passa per
l'urna, per la rivoluzione e per la mano
de l'eccellenza tua.
Terza parte del secondo dialogo.
1 Talmente, dunque, Giove negò la sedia
d'Ercole a la Fortuna, che a suo
arbitrio lasciò e quella ed altre tutte che
sono ne l'universo. Dalla qual
sentenza, comunque se sia, non dissentirno
gli dei tutti; e la orba dea, vedendo
la determinazion fatta citra ogni sua ingiuria, si licenziò dal Senato dicendo:
Io, dunque, me ne vo aperta aperta ed occolta occolta a
tutto l'universo;
discorro gli alti e bassi palaggi, e non
meno che la morte so inalzar le cose
infime e deprimere le supreme; ed al fine, per forza di vicissitudine, vegno a
far tutto uguale, e con incerta successione e raggion
irrazionale, che mi trovo
(cioè sopra ed estra le raggioni
particolari), e con indeterminata misura volto
la ruota, scuoto l'urna, a fine che la mia
intenzione non vegna incusata da
individuo alcuno. Su, Ricchezza, vieni a la mia destra, e
tu, Povertà, a la mia
sinistra: menate vosco il vostro comitato; tu, Ricchezza, li ministri tanto
grati, e tu, Povertà, gli tuoi tanto noiosi
alla moltitudine. Seguiteno, dico,
prima il fastidio e la gioia, la felicità
ed infelicità, la tristizia,
l'allegrezza; la letizia, la maninconia;
la fatica, il riposo; l'ocio,
l'occupazione; la sordidezza, l'ornamento. Appresso l' austerità, le delicie; il
lusso, la sobrietà; la
libidine, l' astinenza; l' ebrietà, la sete; la crapula, la
fame; l'appetito, la sacietade; la
cupidiggia, il tedio e saturità; la pienezza,
la vacuità; oltre il dare,
il prendere; l' effusione, la parsimonia; l' investire,
il dispogliare; il lucro,
la iattura; l' introito, l'exito; il guadagno, il
dispendio; l'avarizia, la liberalitade, con il numero e
misura, eccesso e
difetto; equalitade, inequalitade;
debito, credito, dopoi sicurtà, suspizione;
zelo, adulazione; onore, dispreggio; riverenza, scherno; ossequio, dispetto;
grazia, onta; agiuto, destituzione; disconforto, consolazione; invidia,
congratulazione; emulazione, compassione;
confidenza, diffidenza; dominio,
servitù; libertà, cattività; compagnia, solitudine. Tu,
Occasione, camina
avanti, precedi gli miei passi, aprime mille e mille strade, va incerta,
incognita, occolta, percioché non voglio
che il mio advenimento sia troppo
antiveduto. Dona de sghiaffi
a tutti vati, profeti, divini, mantici
e
prognosticatori. A tutti quei che si attraversano per impedirne il corso nostro,
donagli su le coste. Togli
via davanti gli miei piedi ogni possibile intoppo.
Ispiana e spianta ogni altro
cespuglio de dissegni che ad un cieco nume possa
esser molesto, onde comodamente per te, mia guida, mi fia
definito il montare o
il poggiare, il divertir a
destra o a sinistra, il movere, il fermare,
il menar
ed il ritener de passi. Io in un momento ed
insieme insieme vo e vegno,
stabilisco e muovo, assorgo
e siedo, mentre a diverse ed infinite cose con
diversi mezzi de l'occasione stendo le mani. Discorremo
dunque da tutto, per
tutto, in tutto, a tutto: quivi con dei, ivi con gli eroi;
qua con uomini,
là.con bestie.
2 Or essendo finita questa lite e donato
spaccio alla Fortuna, voltato Giove a
gli dei: - Mi par, disse, che in loco d'Ercole debba
succedere la Fortezza,
perché da dove è la verità, la legge, il giudicio, non
deve esser lunghi la
fortezza; perché constante e forte deve essere quella
voluntà che administra il
giudicio con la prudenza, per la legge, secondo la verità:
atteso che come la
verità e la legge formano l'intelletto, la prudenza, il
giudicio e giustizia
regolano la voluntà; cossì la constanza e fortezza conducono a l'effetto. Onde è
detto da un sapiente: Non ti far giudice, se con la virtude e forza non sei
potente a rompere le machine de l'iniquitade. - Risposero
tutti gli dei: - Bene
hai disposto, o Giove, che Ercole sin ora sia stato come
tipo de la fortezza che
dovea contemplarsi ne gli astri. Succedi
tu, Fortezza, con la lanterna de la
raggione innante, perché altrimente non sareste fortezza,
ma stupidità, furia,
audacia. E non sareste stimata fortezza, né men sareste;
perché per pazzia,
errore ed alienazion di mente verreste
a non temere il male e la morte. Quella
luce farà che non ardisci dove si deve
temere: atteso che tal cosa il stolto e
forsennato non teme che, quanto uno è più
prudente e saggio, deve più paventare.
Quella farà che dove importa l'onore, l'utilità publica, la dignità e perfezione
del proprio essere, la cura delle divine leggi e naturali,
ivi non ti smuovi per
terrori che minacciano morte; sie presta ed
ispedita dove gli altri son torpidi
e tardi; facilmente comporti quel ch'altri
difficilmente; abbi per poco o nulla
ciò che altri stimano molto ed assai. Modera le tue male
compagne: e quella che
ti viene a destra con le sue ministre, Temeritade,
Audacia, Presunzione,
Insolenzia, Furia, Confidenzia;
e quella, che ti vien alla sinistra con la
Povertà di spirto, Deiezione, Timore,
Viltade, Pusillanimitade, Desperazione.
Conduci le tue virtuose figlie, Sedulità, Zelo, Toleranza,
Magnanimità,
Longanimità, Animosità, Alacrità,
Industria, con il libro del catalogo delle
cose che si governano con Cautela, o con Perseveranza, o
con Fuga, o con
Sufferenza; ed in cui son notate le cose ch'il forte non
deve temere: cioè
quelle che non ne fanno peggiore, come la Fame, la Nudità, la Sete, il Dolore,
la Povertà, la Solitudine, la Persecuzione,
la Morte; e de l'altre cose che, per
ne rendere peggiori, denno essere con ogni diligenza fuggite: come l'Ignoranza
crassa, l'Ingiustizia, l'Infidelità, la Buggia, l'Avarizia
e cose simili. Cossì
contemperandoti, non declinando
a destra ed a sinistra, e non allontanandoti da
tue figlie, leggendo ed osservando
il tuo catalogo, non facendo estinto il tuo
lume, sarai sola tutela de Virtudi, unica custodia di Giustizia e torre
singulare de la Veritade; inespugnabile
da' vizii, invitta da le fatiche,
constante a gli perigli, rigida contra le
voluttadi, spreggiatrice de la
Ricchezza, domitrice della Fortuna, triomfatrice del tutto. Temerariamente non
ardirai, inconsultamente
non temerai; non affettarai gli piaceri, non fuggirai
gli odori; per falsa lode non ti compiacerai, e per vituperio non ti
sgomentarai; non t' inalzarai
per le prosperitadi, non ti dismetterai per
le
adversitadi; non t' impiombarà
la gravità de fastidii, non ti sulleverà il vento
de la leggerezza; non ti farà gonfia la
ricchezza, e non ti confondarà la
povertade: spreggiarai il soverchio, arrai
poco senso del necessario. Divertirai
da cose basse, e sarai sempre attenta ad
alte imprese.
3 - Or, che ordine si prenderà per la mia Lira? - disse
Mercurio. A cui rispose
Momo: - Abbila per teco per tuo passatempo, quando ti trovi in barca o pur
quando ti trovarai nell'ostarie. E se fai elezione di
farne qualche presente,
donandola a chi più meritevolmente
si conviene, e non vuol andar troppo vagando
per cercarlo, vattene a
Napoli, a la piazza de l' Olmo; over in Venezia in piazza
di S. Marco, circa il vespro:
perché in questi doi luoghi compariscono gli
corifei di color che montano
in banco; ed ivi ti potrà occorrere quel
megliore a
cui iure meriti la si debbia. - Dimandò Mercurio: - Perché
più tosto a megliori
di questa che di altra specie? - Rispose Momo, che a
questi tempi la lira è
dovenuto principalmente instrumento da chiarlatani,
per conciliarsi e
trattenersi l'udienza, e meglior vendere le
sue pallotte ed albarelli, come la
rebecchina ancora è fatto instrumento da
ciechi mendicanti. Mercurio disse: - E
in mia potestà di farne quel che mi piace? - Cossì è,
disse Giove; ma non già
per ora di lasciarla star in cielo. E
voglio (se cossì pare ancor a voi altri
del conseglio) che in luogo di questa sua lira de le nove
corde succeda la gran
madre Mnemosine con le nove Muse, sue figlie. - Qua fêrno
un chino di testa gli
dei tutti in segno di approvazione; e la
Dea promossa con le sue figlie rese le
grazie. L'Aritmetrica, la quale è primogenita, disse che
le ringraziava per più
volte che non concepe individui e specie di numeri, ed
oltre per più millenarii
de millenarii che mai possa con le sue addizioni apportar
l'intelletto; la
Geometria più che mai forme e figure formar si vagliano, e
che atomi possa mai
incorrere per le fantastiche resoluzioni
di continui; la Musica più che mai
fantasia possa combinar forme di concenti e sinfonie; la Logica più che non
fanno absurdità li suoi gramatici, false persuasioni i suoi retorici, e sofismi
e false demostrazioni i dialettici; la
Poesia più che, per far correre le lor
tante favole, non hanno piedi quanti han fatti e son per
far versi i suoi
cantori; la Astrologia più che contegna stelle l' inmenso spacio dell' eterea
regione, se più dir si puote; la Fisica tante mercé li
rese, quante possono
essere prossimi e primi principii ed elementi nel seno de
la natura; la
Metafisica più che non son geni d'idee e specie de fini ed
efficienti sopra gli
naturali effetti, tanto secondo la realità
che è ne le cose, quanto secondo il
concetto representante;
l'Etica, quanti possono essere costumi, consuetudini,
leggi, giustizie e delitti in questo ed altri mondi de
l'universo. La madre
Mnemosine disse: - Tante grazie e mercé vi rendo,
o dei, quanti esser possono
particolari suggetti a la memoria ed a l'oblio, alla
cognizione ed ignoranza. -
Ed in questo mentre Giove ordinò alla sua primogenita
Minerva, che gli porgesse
quella scatola che teneva
sotto il capezzal del letto; ed indi cacciò
nove
bussole, le quali contegnono
nove collirii che son stati ordinati per purgar
l'animo umano, e quanto alla cognizione e quanto alla
affezione. E primamente ne
donò tre alle tre primiere, dicendogli:
- Eccovi il meglior unguento con cui
possiate purgar e chiarir la potenza
sensitiva circa la moltitudine, grandezza
ed armonica proporzione di cose sensibili. - Ne dié uno a la quarta, e disse: -
Questo servirà per far regolata la facultà
inventiva e giudicativa. - Prendi
questo, disse a la quinta, che con
suscitar certo melancolico appulso è potente
ad incitar a delettevole furore e vaticinio. - Donò il suo
a la sesta,
mostrandogli il modo, con cui mediante
quello aprisse gli occhi de mortali alla
contemplazion di cose archetipe e superne. La settima ricevé
quello per cui
meglio vien riformata la facultà razionale circa la
contemplazion de la natura.
La ottava, l'altro non meno eccellente
che promove l'intelletto all'apprension
di cose sopranaturali, in quanto che influiscono
ne la natura e sono in certo
modo absolute da quella. L'ultimo, più
grande, più precioso e più eccellente,
dié in mano de l' ultimogenita; la quale,
quanto è posterior de l'altre tutte,
tanto è più che tutte l'altre degna; e gli disse: - Ecco
qua, Etica, con cui
prudentemente, con sagacità, accortezza e generosa
filantropia saprai instituir
religioni, ordinar gli culti, metter leggi ed esecutar
giudicii; ed approvare,
confirmare, conservar e defendere tutto il
che è bene instituito, ordinato,
messo ed esecutato, accomodando
quanto si può gli affetti ed effetti al culto de
dei e convitto de gli uomini.
4 - Che faremo del Cigno? - dimandò Giunone. Rispose Momo:
-Mandiamolo in nome
del suo diavolo a natar
con gli altri, o nel lago di Pergusa, o nel
fiume
Caistro, dove arrà molti compagni - Non
voglio cossì, disse Giove; ma ordino che
nel becco sia marcato del mio sigillo e
messo nel Tamesi; perché là sarà più
sicuro ch'in altra parte, atteso che per la tema di pena
capitale non mi potrà
essere così facilmente rubbato. - Saviamente, suggionsero gli dei, hai provisto,
o gran padre; - ed aspettavano che Giove determinasse del
successore. Onde
séguita il suo decreto il primo presidente, e dice: - Mi
par molto convenevole
che vi sia locata la Penitenza, la qual
tra le virtudi è come il cigno tra gli
ucelli: perché la non ardisce, né può volar alto per il gravor dell' erubescenza
ed umile recognizion di se stessa, si mantiene sommessa; però, togliendosi a
l' odiosa terra, e non ardendo
de s'inalzare al cielo, ama gli fiumi, s' attuffa a
l'acqui, che son le lacrime della compunzione
nelle quali cerca lavarsi,
purgarsi, mondarsi, dopo
ch'a sé nel limoso lido de l'errore insporcata
dispiacque, mossa dal
senso di tal dispiacere, è incorsa la determinazione del
corregersi, e, quanto possibil fia, farsi
simile alla candida innocenza. Con
questa virtù risaleno l'anime che son ruinate dal cielo ed inmerse a l'Orco
tenebroso, passate per il Cocito de le
voluttadi sensitive, ed accese dal
Periflegetonte de l'amor cupidinesco ed
appetito di generazione; de quali il
primo ingombra il spirto di tristizia, ed il secondo rende
l'alma disdegnosa;
come per rimembranza de l'alta ereditade ritornando in se medesima, dispiace a
se medesima per il stato presente; si duole
per quel che si delettò e non
vorrebe aver compiaciuto a
se stessa: ed in questo modo viene a poco a poco a
dispogliarsi dal presente stato, attenuandosegli la materia carnale ed il peso
de la crassa sustanza; si mette tutta in piume, s'accende
e si scalda al sole,
concepe il fervido amor di cose sublimi, doviene aeria, s'appiglia al sole e di
bel nuovo si converte al suo principio. - Degnamente la
Penitenza è messa tra le
virtudi, disse Saturno; perché, quantunque sia figlia del
padre Errore e de
l'Iniquitade madre, è nulladimeno come la vermiglia
rosa che da le adre e
pungenti spine si caccia;
è come una lucida e liquida scintilla che
dalla negra
e dura selce si spicca, fassi in alto e tende al suo cognato sole. - Ben
provisto, ben determinato! - disse tutto il concilio de
gli dei. - Sieda la
Penitenza tra le virtudi, sia uno de gli celesti numi!
5 A questa voce generale, prima ch'altro proponesse
di Cassiopea, alzò la voce
il furibondo Marte, e disse: - Non sia, o
dei, chi tolga alla mia bellicosa
Ispagna questa matrona che
cossì boriosa, altiera e maestrale non si contentò
di
salir al cielo senza condurvi la sua
catedra col baldacchino. Costei (se cossì
piace al padre summitonante, e se voi altri non volete discontentarmi a rischio
di patir a buona misura il simile, quando
mi passarete per le mani) vorrei che,
per aver costumi di quella patria, e parer ivi nata,
nodrita ed allevata,
determiniate che la vi soggiorne. -
Rispose Momo: - Non sia chi tolga
l'arroganza e questa femina, ch'è vivo ritratto di quella,
al signor bravo
capitan di squadre. - A
cui Marte: - Con questa spada farò conoscere non
solamente a te poveraccio, che non hai
altra virtude e forza che de lingua
fracida senza sale; ma ed oltre a qualsivogli'altro (fuor
di Giove, per essere
superior di tutti), che sotto quella che voi dite
iattanza, dica non si trovar
bellezza, gloria, maestà, magnanimità, e fortezza degna
della protezion del
scudo marziale; e di cui l'onte non son
indegne d'esser vendicate da questa
orribil punta chi ha soluto domar uomini
e dei. - Abbila pur, soggionse Momo, in
tua mal'ora teco: perché tra noi altri dei non vi trovarai
un altro sì bizzarro
e pazzo, che, per guadagnarsi una de queste colubre
e tempestose bestie, voglia
mettersi a rischio di farsi rompere il capo. - Non te incolerar, Marte, non ti
rabbiar, Momo, disse il benigno
protoparente. Facilmente a te, dio de la guerra,
si potrà concedere liberamente questa cosa, che non è
troppo d'importanza, se ne
bisogna talvolta, al nostro dispetto, comportar, che con
la sola autorità della
tua fiammeggiante spada commetti
tanti stupri, tanti adulterii, tanti
latrocinii, usurpazioni
ed assassinii. Va' dunque, che io insieme con gli altri
dei la commettemo in tutto alla tua
libidinosa voglia; sol che non più la facci
induggiar qua in mezzo a gli astri, vicina
a tante virtuose dee. Vada con la sua
catedra a basso, e conduca la Iattanzia
seco. E ceda il luogo alla Semplicità,
la qual declina dalla destra di costei, che ostenta
e predica più di quel che
possiede, e dalla sinistra della Dissimulazione la quale
occolta e finge di non
aver quel ch'ave, e mostra posseder meno
di quel che si trova. Questa pedissequa
de la Veritade non deve lungi peregrinare
dalla sua regina, benché talvolta la
dea Necessitade la costringa di declinare
verso la Dissimulazione, a fine che
non vegna inculcata la Simplicità o
Veritade, o per evitar altro inconveniente.
Questo facendosi da lei non senza modo ed ordine,
facilmente potrà essere fatto
ancora senza errore e vizio. - Andando la Semplicità per
prendere il suo luogo,
comparve de incesso sicuro e confidente;
al contrario de la Iattanzia e
Dissimulazione, le quali caminano non
senza tema, come con gli suspiciosi passi
e formidoloso aspetto dimostravano.
Lo aspetto della Simplicità piacque a tutti
gli dei, perché per la sua uniformità in
certa maniera rapresenta ed ha la
similitudine del volto divino. Il volto suo è amabile, perché non si cangia mai;
e però con quella raggione, per cui comincia una volta a
piacere, sempre
piacerà; e non per suo, ma per l'altrui
difetto aviene che cesse d'essere amata.
Ma la Iattanzia, la qual suol piacere, per donare ad
intendere di possedere più
di quel che possiede, facilmente, quando sarà conosciuta,
non solo incorrerà
dispiacenza, ma ed oltre, talvolta,
dispreggio. Similmente la Dissimulazione,
per esser altrimente conosciuta, che come prima si volse persuadere, non senza
difficultade potrà venir in odio a colui da chi fu prima grata. Di queste dunque
l'una e l'altra fu stimata indegna del cielo, e di esser unita a quello che suol
trovarsegli in mezzo. Ma non tanto la
Dissimulazione, di cui talvolta sogliono
servirsi anco gli dei; perché talvolta,
per fuggir invidia, biasmo ed oltraggio,
con gli vestimenti di costei la Prudenza
suole occultar la Veritade.
6 \ SAUL.\ È vero e bene, o Sofia; e non senza spirto di
veritade mostrò il
Poeta ferrarese, questa essere molto più
conveniente a gli omini, se talvolta
non è sconvenevole a dei:
Quantunque il simular sia le più volte
Ripreso, e dia di mala mente indici,
Si trova pur in molte cose e molte
Aver fatti evidenti benefici,
E danni, e biasmi, e morte
aver già tolte;
Ché non conversiam sempre con gli amici
In questa assai più oscura che serena
Vita mortal, tutta d'invidia piena.
7 Ma vorrei sapere, o Sofia, in che maniera intendi la
Simplicità aver
similitudine del volto divino.
8 \ SOFIA\ Per questo, che la non può aggiongere a l'esser
suo con la iattanza,
e non può suttraere da quello con la
simulazione. E questo procede dal non avere
intelligenza ed apprensione di se stessa; come quello che
è simplicissimo, se
non vuol essere altro che semplicissimo, non intende se
stesso. Perché quello
che si sente e che si remira, si fa in certo modo molto,
e, per dir meglio,
altro ed altro; perché si fa obietto e
potenza, conoscente e conoscibile:
essendo che ne l'atto dell'intelligenza molte cose
incorreno in uno. Però quella
semplicissima intelligenza non si dice intendere se
stessa, come se avesse un
atto reflesso de intelligente
ed intelligibile; ma perché è absolutissimo e
semplicissimo lume, solo dunque se dice intendersi
negativamente, per quanto non
si può essere occolta. La Semplicità dunque, in quanto che
non apprende e non
commenta su l'esser suo, s'intende aver
similitudine divina. Dalla quale a tutta
distanza dechina la
boriosa Iattanzia. Ma non tanto la studiosa Dissimulazione,
a cui Giove fa lecito che talvolta si presente in cielo, e
non già come dea, ma
come tal volta ancella della Prudenza e scudo della
Veritade.
9 \ SAUL.\ Or vengamo ad considerar quel ch'è fatto di
Perseo e della sua
stanza.
10 \ SOFIA\ - Che farai, o Giove, di questo tuo bastardo,
che ti fêsti parturire
a Danae? - disse Momo. Rispose Giove: -Vada, se cossì
piace al senato intiero
(perché mi par che qualche nuova Medusa si trova in terra,
che, non meno che
quella di già gran tempo, è potente di convertere in selce
col suo aspetto
chiunque la remira), vada a costei non come mandato da un
nuovo Polidette, ma
come inviato da Giove insieme con tutto il senato celeste;
e veda se, secondo la
medesima arte, possa superare tanto più orribile quanto più nuovo mostro. - Qua
risorse Minerva, dicendo: - Ed io dal mio canto non
mancarò d' accomodargli non
men commodo scudo di cristallo con cui vegna ad abbarbagliar la vista de le
nemiche Forcidi messe in custodia de le Gorgoni; ed io in
presenza voglio
assistergli, sin tanto che abbia disciolto il capo di questa Medusa dal suo
busto. - Cossì, disse Giove, farai molto bene, mia figlia;
ed io te impono
questa cura, nella qual voglio che t' adopri
con ogni diligenza. Ma non vorei che
di nuovo faccia, che a danno de gli poveri popoli avenga che per le stille, che
scorreranno da le vene incise,
vegnano generati nuovi serpenti in terra, dove, a
mal grado de miseri, vi se ne ritrovano
pur assai e troppo. Però, montato sul
Pegaso, che verrà fuori del fecondo
corpo di colei, discorra (riparando al
flusso de le goccie sanguinose) non già per l' Africa dove di
qualche cattiva
Andromeda vegna cattivo: dalla quale, avinta in ferree catene, vegna legato di
quelle di diamante; ma col suo destriero alato discorra la
mia diletta Europa;
ed ivi cerca, dove son que' superbi e mostruosi
Atlanti, nemici de la progenie
di Giove, da cui temeno che gli vegnan
tolte le poma d'oro, che sotto la
custodia e serragli de l'Avarizia ed Ambizione tegnono
occolte. Attenda ove son
altre più generose e più belle Andromede
che per violenza di falsa religione
vegnono legate ed esposte alle marine belve.
Guarde se qualche violento Fineo,
constipato dalla moltitudine di
perniciosi ministri, viene ad usurparsi i frutti
dell'altrui industrie e fatiche. Se qualche numero de
ingrati, ostinati ed
increduli Polidetti vi
presiede, facciasegli a il specchio tutto animoso
innante, presentegli agli occhi ove
possono remirar il suo fedo ritratto, dal
cui orrendo aspetto impetrati perdano ogni
perverso senso, moto e vita. -.
11 - Bene ordinato il tutto, dissero gli dei. Perché è
cosa conveniente che
gionto ad Ercule, che col braccio della
Giustizia e bastone del Giudicio è fatto
domator de le corporee
forze, compaia Perseo, che, col specchio luminoso della
dottrina e con la presentazion del
ritratto abominando de la scisma ed eresia,
alla perniciosa conscienza de gli malfattori
ed ostinati ingegni metta il
chiodo, togliendoli l'opra di lingua, di mani e senso.
12 \ SAUL.\ Venite ora, Sofia, a chiarirmi
di quello ch'è ordinato a succedere
a la piazza onde fece partenza costui.
13 \ SOFIA\ Una virtude in abito e gesti niente dissimile
a costui, che si
chiama Diligenza, over Sollecitudine; la qual ha ed è
avuta per compagna da la
Fatica, in virtù della quale Perseo fu Perseo, ed Ercole
fu Ercole, ed ogni
forte e faticoso è faticoso e forte; e per cui il pronepote d' Abante
av' intercetto alle Forcidi il lume, il capo
a Medusa, il pennato destriero al
tronco busto, le sacre
poma al figlio di Climene ed Iapeto, la
figlia di Cefeo
ed Andromeda al Ceto, difesa la moglie dal rivale,
revista Argo sua patria,
tolto il regno a Preto, restituito quello
a Crisio fratello, vendicatosi su
l'ingrato e discortese re de l'isola Serifia; per cui, dico, si supera ogni
vigilanza, si tronca ogni adversa
occasione, si facilita ogni camino ed accesso,
s'acquista ogni tesoro, si doma ogni forza, si toglie ogni
cattività, s'ottiene
ogni desio, si defende ogni possessione, si gionge ad ogni
porto, si deprimeno
tutti adversarii, si esaltano
tutti amici e si vendicano tutte ingiurie; e
finalmente si viene ad ogni dissegno. Ordinò dunque Giove,
e questo ordine
approvâro tutti dei, che la faticosa e
diligente Sollecitudine si facesse
innante. Ed ecco che la comparve, avendosi adattati
gli talari de l'impeto
divino con gli quali calpestra il sommo
bene populare, spreggia le blande
carezze de le voluttadi, che, come Sirene
insidiose, tentano di ritardarla dal
corso de l'opra che la ricerca ed aspetta. Appigliatasi
con la sinistra al scudo
risplendente dal suo fervore, che di stupida maraviglia
ingombra gli occhi
desidiosi ed inerti; compresa con la
destra la serpentina chioma di perniciosi
pensieri, a' quai sottogiace quell'orribil capo, di cui
l'infelice volto da
mille passioni di sdegno, d'ira, di
spavento, di terrore, di abominio, di
maraviglia, di melancolia e di lugubre
pentimento disformato, sassifica ed
instupisce chiunque v'affigge gli occhi; montata su quell' aligero cavallo della
studiosa perseveranza, con il quale, a quanto si forza, a
tanto arriva e giunge,
superando ogni intoppo di clivoso monte, ritardamento di profonda valle, impeto
di rapido fiume, riparo di siepe densissime e di quantunque grosse ed alte
muraglia. Venuta dunque in presenza del
sacrosanto senato, udì dal sommo preside
queste paroli: - Voglio, o Diligenza, che ottegni
questo nobil spacio nel cielo;
perché tu sei quella che nutri con la
fatica gli animi generosi. Monta, supera e
passa con uno spirto, se possibil fia, ogni sassosa
e ruvida montagna. Infervora
tanto l'affetto tuo, che non solo resisti e vinci te
stessa, ma, ed oltre, non
abbi senso della tua difficultade, non abbi sentimento del
tuo esser fatica;
perché cossì la fatica non deve esser fatica a sé, come a
se medesimo nessun
grave è grave. Però non sarai degna fatica, se talmente
non vinci te stessa, che
non ti stimi essere quel che sei, fatica; atteso che,
dovunque hai senso di te,
non puoi essere superiore a te; ma, se non sei depressa o suppressa, vieni al
meno ad essere oppressa da te medesima. La
somma perfezione è non sentir fatica
e dolore, quando si comporta fatica e dolore. Devi superarti con quel senso di
voluttà, che non sente voluttà; quella voluttà dico, la
quale, se fusse
naturalmente buona, non verrebe dispreggiata
da molti, come principio di morbi,
povertade e biasimo. Ma tu, Fatica, circa l'opre egregie
sii voluttà e non
fatica a te stessa; vegni, dico, ad esser una e medesima
cosa con quella, la
quale fuor di quelle opre ed atti virtuosi sia a se stessa
non voluttà, ma
fatica intolerabile. Su dunque, se sei
virtù, non occuparti a cose basse, a cose
frivole, a cose vane. Se vuoi esser là
dove il polo sublime della Verità ti
vegna verticale, passa questo Apennino, monta queste Alpi, varca questo
scoglioso Oceano, supera questi rigorosi Rifei, trapassa questo
sterile e gelato
Caucaso, penetra le inaccessibili
erture, e subintra quel felice circolo, dove
il lume è continuo e non si veggon mai tenebre né freddo,
ma è perpetua temperie
di caldo e dove eterna ti fia l'aurora o giorno. Passa
dunque tu, dea
Sollecitudine o Fatica; e voglio (disse Giove) che la
difficultade ti corra
avanti e ti fugga. Scaccia la Disaventura,
apprendi la Fortuna pe' capelli;
affretta, quando meglio ti pare, il corso della sua ruota;
e quando ti sembra
bene, figigli il chiodo, acciò non scorra. Voglio che teco vegna la Sanità, la
Robustezza, l'Incolumità. Sia tua scudiera
la Diligenza e tuo antesignano sia
l'Esercizio. Sieguati l'Acquisizione con
le munizioni sue, che son Bene del
corpo, Bene de l'animo, e, se vuoi, Bene de la fortuna; e
di questi voglio che
più sieno amati da te quei che tu medesima hai acquistati,
che altri che ricevi
d'altrui: non altrimente che una madre ama più li figli,
come colei che più le
conosce per suoi. Non voglio che possi dividerti;
perché, se ti smembrarai,
parte occupandoti a l'opre de la mente e
parte a l' oprazioni del corpo, verrai
ad esser defettuosa a l'una e l'altra
parte; e se più ti addonarai a l'uno, meno
prevalerai ne l'altro verso: se tutta inclinarai a cose materiali, nulla vegni
ad essere in cose intellettuali, e per l'incontro. Ordino
a l'Occasione, che
quando fia mestiero, ad alta voce o con cenno o con
silenzio quella chiamatati,
o ti esorti, o ti alletti,
o ti inciti, o ti sforze. Comando alla Comodità ed
Incomodità, che ti avertiscano quando si
possano accollare, e quando si denno
poner giù le sarcine,
como talor quando è necessario transnatare. Voglio che la
Diligenza ti toglia ogni intoppo; la Vigilanza ti farà la sentinella guardando
circa in circa, a fin che cosa non ti s' appresse
all'improviso; che la Indigenza
ti averta dalla Sollecitudine e Vigilanza
circa cose vane; la quale se non sarà
udita da te, succeda al fine la Penitenza, la qual ti
faccia esperimentar che è
cosa più laboriosa aver menate le braccia
vacue, che con le mani piene aver
tirati sassi. Tu con gli
piedi della Diligenza, quanto puoi, fuggi e ti
affretta, pria che Forza maggior intervegna
e toglia la Libertade over porga
forza ed armi alla Difficultade.
14 Cossì la Sollecitudine, avendo ringraziato Giove e gli
altri, prende il suo
camino e parla in questa forma: - Ecco, io Fatica muovo
gli passi, mi accingo,
mi sbraccio. Via da me ogni torpore, ogni
ocio, ogni negligenza, ogni desidiosa
acedia, fuori ogni lentezza!
Tu, Industria mia, proponite avanti gli occhi della
considerazione il tuo profitto, il tuo fine. Rendi
salutifere quelle altrui
tante calunnie, quelli altrui tanti frutti
di malignitade ed invidia, e quel tuo
raggionevole timore che ti cacciâro dallo
tuo natio albergo, che ti alienaro
da
gli amici, che ti allontanâro dalla
patria, e ti bandîro a poco amichevole
contrade. Fa', Industria mia, meco glorioso
quello essilio e travagli, sopra la
quiete, sopra quella patria tranquillitade, commoditade e
pace. Su, Diligenza,
che fai? perché tanto ociamo e dormiamo vivi, se tanto tanto doviamo ociar e
dormire in morte? Atteso che, se pur aspettiamo
altra vita o altro modo di esser
noi, non sarà quella nostra, come de chi siamo al
presente; percioché questa,
senza sperar giamai ritorno, eternamente passa. Tu,
Speranza, che fai, che non
mi sproni, che non m'inciti? Su, fa' ch'io aspetti
da cose difficili exito
salutare, se non mi affretto
avanti tempo e non cesso in tempo; e non far ch'io
mi prometta cosa per quanto viva, ma per
quanto ben viva. Tu, Zelo, siimi sempre
assistente, a fine ch'io non tente cose indegne di nume da
bene, e che non
stenda le mani a quei negocii che sieno caggione di
maggior negocio. Amor di
gloria, presentami avanti gli occhi
quanto sia brutto a vedere, e cosa turpe di
esser sollecito della sicurtà nell'entrata e principio del
negocio. Sagacità,
fa' che da le cose incerte e dubie non mi retire, né volte le spalli, ma da
quelle pian piano mi discoste in salvo. Tu medesima (acciò
ch'io non sia
ritrovata da nemici, ed il furor di quelli
non mi s'avente sopra) confondi,
seguendomi, gli miei vestigi.
Tu mi fa menar gli passi per vie distanti da le
stanze de la Fortuna, perché la non ha lunghe
le mani, e non può occupar se non
quelli che gli son vicini, e non essagita se non color che si trovano dentro la
sua urna. Tu farai ch'io non tente cosa, se non quando attamente posso; e fammi
nel negocio più cauta che forte, se non puoi farmi
equalmente cauta e forte. Fa'
ch'il mio lavoro sia occolto e sia aperto: aperto, acciò
che non ogniuno il
cerca ed inquira; occolto, acciò che non
tutti, ma pochissimi lo ritroveno.
Perché sai bene che le cose occolte sono investigate,
e le cose inserrate
convitano gli ladroni. Oltre, quel che
appare, è stimato vile, e l'arca aperta
non è diligentemente ricercata,
ed è creduto poco preggiato quello che non si
vede con molta diligenza messo in custodia. Animosità, con
la voce del tuo
vivace fervore, quando la difficultà mi preme,
oltraggia, e resiste, non mancar
sovente d' intonarmi a l'orecchio quella
sentenza: Tu ne cede malis, sed contra
15 Tu, Consultazion, mi farai intendere quando mi conviene
sciôrre o rompere la
mal impiegata occupazione; la qual degnamente prenderà la
mira non ad oro e
facultadi da volgari e sordidi ingegni; ma
a que' tesori che meno ascosi e
dispersi dal tempo, son celebrati e colti nel campo de l' eternitade; a fin che
non si dica di noi, come di quelli: meditantur
sua stercora scarabaei. Tu,
Pazienza, confirmami, affrenami
ed administrami quel tuo Ocio eletto, a cui non
è sorella la Desidia, ma quello che è fratello de la
Toleranza. Mi farai
declinar dall' inquietudine
ed inclinare alla non curiosa Sollecitudine. Allora
mi negarai il correre, quando correr mi cale dove son precipitosi,
infami e
mortali intoppi. Allora non mi farai
alzar l'ancora e sciôrre la poppa dal lido,
quando aviene che mi commetta ad insuperabile
turbulenza di tempestoso mare. Ed
in questo mi donarai ocio di abboccarmi
con la Consultazione, la quale mi farà
guardar prima me stessa; secondo, il
negocio ch'ho da fare; terzo, a che fine e
perché; quarto, con quai circonstanze; quinto, quando;
sesto, dove; settimo, con
cui. Amministremi quell'ocio con cui io
possa far cose più belle, più buone e
più eccellenti che quelle che lascio; perché in casa de
l'Ocio siede il
Conseglio, ed ivi della vita beata,
meglior che in altra parte, si tratta. Indi
megliormente si contemplano le occasioni;
da là con più efficacia e forza si può
uscire al negocio, perché, senza esser prima a bastanza posato, non è possibile
di posser appresso ben correre. Tu, Ozio, mi administra,
per cui io vegna
stimato manco ocioso che tutti gli altri; percioché per
tuo mezzo accaderà, che
io serva a la republica e defension de la
patria più con la mia voce ed
esortazione, che con la spada, lancia e
scudo il soldato, il tribuno,
l'imperatore. Accòstati a me tu, generoso ed eroico e
sollecito Timore; e con il
tuo stimolo fa' che io non perisca
prima dal numero de gl'illustri che dal
numero de vivi. Fa' che prima che il torpore e morte mi
tolga le mani, io mi
ritrove talmente provisto che non mi possa
togliere la gloria de l'opre.
Sollecitudine, fa' che sia finito il tetto prima che vegna
la pioggia; fa' che
si ripare a le fenestre
pria che soffieno gli Aquiloni ed Austri di lubrico ed
inquieto inverno. Memoria del bene adoperato corso della vita, farai tu che la
senettute e morte pria mi tolga che mi conturbe
l'animo. Tu, tema di perdere la
gloria acquistata ne la vita, non mi farai
acerba, ma cara e bramabile la
vecchiaia e morte.
16 \ SAUL.\ Ecco qua, o Sofia, la più degna ed onorata
ricetta per rimediar
alla tristizia e dolor che apporta la matura etade, ed all'importuno terror de
la morte che da l'ora, che abbiamo uso di sensi, suol tiranneggiar il spirto de
gli animanti. Onde ben disse il nolano Tansillo:
Godon quei, che non son ingrati al cielo,
E ad alte imprese non fur freddi
e rudi;
Le staggion liete, allor che neve e gielo
Cadon su i colli d'erbe e
di fior nudi,
Non han di che dolersi, ancor che, pelo
Cangiando e volto, cangin vita e studi.
Non ha l' agricoltor di che si doglia,.
Pur ch'al debito tempo il frutto coglia.
17 \ SOFIA\ Assai ben detto, Saulino. Ma è tempo che tu ti
retiri; perché ecco
il mio tanto amico nume, quella grazia tanto desiderabile,
quel volto tanto
spettabile da la parte orientale mi
s'avicina.
18 \ SAUL.\ Bene dunque, mia Sofia, domani a l'ora solita,
se cossì ti piace, ne
revederemo. Ed io in questo mentre andarò a delinearmi quel tanto che oggi ho
udito da te, a fine che megliormente la memoria de tuoi
concetti possa, quando
fia bisogno, rinovarmi, e più comodamente
per l' avenir far di quella partecipe
altrui.
19 \ SOFIA\ Maraviglia, che con più del solito frettolose piume mi viene a
l'incontro; non lo veggio venir, secondo la sua
consuetudine, scherzando col
caduceo e battendo sì vagamente con l'ali
l'aria liquidissimo. Parmi vederlo
turbatamente negocioso. Ecco, mi rimira, e talmente ha ver' me conversi gli
occhi che fa manifesto l' ansioso
pensiero non pender da mia causa.
20 \ MERC.\ Propizio ti sia sempre il
fato, impotente sia contra di te la rabbia
del tempo, mia diletta e gentil figlia e sorella ed amica.
21 \ SOFIA\ Che cosa, o mio bel dio, ti fa sì turbato in
vista, benché al mio
riguardo non mi sei men ch'altre volte liberale di tua
tanto gioconda grazia?
perché ti ho veduto venir come in posta, e più accinto di andar e passar oltre
che disposto de dimorar alquanto meco?
22 \ MERC.\ La caggion di questo è che sono in fretta mandato
da Giove a
proveder e riparar a l'incendio che ha
cominciato a suscitar la pazza e fiera
Discordia in questo Regno Partenopeo.
23 \ SOFIA\ In che maniera, o Mercurio, questa pestifera Erinni s'è da là de le
Alpi ed il mare aventata a questo nobil
paese?
24 \ MERC.\ Dalla stolta ambizione e pazza confidenza
d'alcuno è stata chiamata;
con assai liberali, ma non meno incerte
promesse è stata invitata; da fallace
speranza è stata commossa; è aspettata da doppia gelosia, la quale nel popolo
adopra il voler mantenersi nella medesima
libertade in cui è stato sempre, ed il
temer di subintrar più arcta servitude;
nel prencipe il suspetto di perder
tutto, per aver voluto abbracciar troppo.
25 \ SOFIA\ Che cosa è primo origine e
principio di questo?
26 \ MERC.\ La grande avarizia che va lavorando
sotto pretesto di voler mantener
la Religione.
27 \ SOFIA\ Il pretesto in vero mi par falso; e se non
m'inganno, è
inexcusabile: perché non si richiede
riparo o cautela dove nessuna ruina o
periglio minaccia, dove gli animi son tali quali erano, ed
il culto di quella
dea non cespita in queste come in altre parti.
28 \ MERC.\ E quando ciò fusse, non tocca a l'Avarizia, ma
alla Prudenza e
Giustizia di rimediarvi; perché ecco, che
quello ha commosso il popolo a furore,
ed a la occasione pare aver tempo d' invitar
gli animi rubelli a non tanto
defendere la giusta libertà, quanto ad aspirar
ad ingiusta licenza, e governarsi
secondo la perniciosa e contumace
libidine, a cui.sempre fu prona la moltitudine
bestiale.
29 \ SOFIA\ Dimmi, se non ti è grave, in che maniera dite
che l'Avarizia vuol
30 \ MERC.\ Aggravando gli castighi de
delinquenti, di sorte che della pena d'un
reo vegnano equalmente partecipi molti innocenti, e tal volta gli giusti; e con
ciò vegna a farsi sempre più e più grasso
il prencipe.
31 \ SOFIA\ È cosa naturale che le pecore ch'hanno il lupo
per governatore,
vegnano castigate con esser vorate da lui.
32 \ MERC.\ Ma è da dubitare che qualche volta sia
sufficiente la sola cupa fame
ed ingordiggia del lupo a farle colpevoli.
Ed è contra ogni legge, che per
difetto del padre, vegnano multati gli
agnelli e la madre.
33 \ SOFIA\ È vero che mai ho trovato tal giudizio se non
tra' fieri barbari, e
credo che prima fusse trovato tra' Giudei,
per esser quella una generazione
tanto pestilente, leprosa
e generalmente perniciosa, che merita prima esser
spinta che nata. Sì che, per venire al nostro proposito,
questa è la caggione
che ti tien turbato, suspeso,
e per cui fia mestiero che subito mi lasci?
34 \ MERC.\ Cossì è; ho voluto far questo camino per convenirti prima che giunga
a le parti, dove ho drizzato il volo, per non farti
vanamente aspettare, e non
mancar a la promessa che feci ieri. A Giove ho mosso
qualche proposito de casi
tuoi, e lo veggio più ch'al solito inchinato a compiacerti. Ma per quattro o
cinque giorni, ed oggi tra gli altri, io non ho ocio di
trattar e conferir teco
quello che doviamo negociare in proposito de l'instanza
che devi fare; però arai
pazienza in questo mentre, atteso che meglio è trovar
Giove ed il senato
feriante da altri impacci,
che in quella maniera che puoi credere che sia al
presente.
35 \ SOFIA\ Mi piace l'aspettare, perché con questo che la
cosa verrà proposta
più tardi, potrà anco megliormente essere ordinata. Ed a
dire il vero, io in
gran fretta (per non mancar il mio dovero per la promessa
che ti avevo fatta di
commetterti oggi la richiesta) non ho
possuto satisfar a me medesima, atteso che
penso che le cose denno essere esposte più per particolare
che non ho fatto in
questa nota; la quale ecco vi porgo, perché veggiate
(se vi occorrerà ocio per
il camino) la somma de le mie querele.
36 \ MERC.\ Io vedrò questa; ma voi
farrete bene di servirvi della commodità di
questo tempo per far più lungo e distinto memoriale, a
fine che si possa a pieno
provedere al tutto. Io adesso per la prima, per confondere
la forza, voglio
andar a suscitar l'Astuzia; acciò che gionta a l'Inganno, dettar possa una
lettera di tradimento contra la pretenduta
ambiziosa Ribellione; per la qual
finta lettera si diverta l'empito maritimo del Turco, ed obste al Gallico
furore
ch'a lunghi passi da qua de l'Alpi per terra s'avicina.
Cossì per difetto di
Forza si spinga l'ardire, si tranquille il
popolo, s' assicure il prencipe, ed il
timore spinga la sete de l'Ambizione ed Avarizia senza
bere. E con ciò al fine
vegna richiamata la bandita Concordia, e
posta nella sua catedra la Pace,
mediante la confirmazione dell' antiqua
Consuetudine di vivere, con abolizione di
perigliosa ed.ingrata Novitade.
37 \ SOFIA\ Va dunque, mio Nume, e piaccia al fato che
felicemente vegnano
adempiti i tuoi dissegni, perché non vegna
la mia nemica guerra a turbar il
stato mio, non meno che quel de gli altri.
Dial. 3
Prima parte del terzo dialogo.
1 \ SOFIA\ Non fia mestiero, Saulino, di farti intendere
per il particolare
tutti que' propositi che tenne la Fatica, o Diligenza, o
Sollecitudine, o come
la volete chiamare (perché ha più nomi che non potrei
farti udire in una ora);
ma non voglio passar con silenzio quello che successe
subito che colei con le
sue ministre e compagne andò a prendersi il loco là dove dicevamo essere il
negocioso Perseo.
2 \ SAUL.\ Dite, che io vi ascolto.
3 \ SOFIA\ Subito (perché il sprone dell'Ambizione sovente
sa spingere ed
incitar tutti eroici e divini ingegni, sin a questi dei
compagni Ocio e Sogno)
avenne che non ociosa e sonnacchiosamente,
ma solleciti e senza dimora, non sì
tosto la Fatica e Diligenza disparve, che essi vi furono
visti presenti. Per il
che disse Momo: - Liberaci, Giove, da
fastidio, perché veggio aperto che ancora
non mancaranno garbugli dopo
l'espedizione di Perseo, come n'abbiamo avuti tanti
dopo quella d'Ercole. - A cui rispose Giove: - L'Ocio non
sarrebe Ocio, ed il
Sonno non sarrebe Sonno, se troppo a lungo ne dovessero
molestare per troppa
diligenza o fatica che debbano prendere;
perché quella è discostata da qua, come
vedi; e questi son qua solo in virtù privativa
che consiste nell'absenza de la
lor opposita e nemica. - Tutto passarà
bene, disse Momo, se non ne faranno tanto
ociosi e lenti, che per
questo giorno non possiamo definire di quello che si
deve conchiudere circa il principale. - Cominciò, dunque,
l'Ocio in questa
maniera a farsi udire: - Cossì l'Ocio, o dei, è talvolta
malo, come la Diligenza
e Fatica è più de le volte mala: cossì l'Ocio il più de le
volte è conveniente e
buono, come le sue volte è buona la Fatica. Non credo
dunque, se giustizia tra
voi si trova, che vogliate negarmi equale
onore, se non è debito che mi stimiate
manco degno. Anzi per raggione mi confido
di farvi capire (per causa di certi
propositi che ho udito allegare in lode e
favore della diligenza e negocio) che
quando saremo posti nel bilancio della
raggionevole comparazione, se l'Ozio non
si trovarà equalmente buono, si convencerà
di gran vantaggio megliore, di
maniera che non solo non la mi stimarete
equalmente virtude, ma, oltre,
4 Chi è quello, o dei, che ha serbata la
tanto lodata età de l'oro? chi l'ha
instituta, chi l'ha mantenuta,
altro che la legge de l'Ocio, la legge della
natura? Chi l'ha tolta via? chi l'ha spinta quasi irrevocabilmente dal mondo,
altro che l'ambiziosa Sollecitudine, la curiosa Fatica?
Non è questa quella
ch'ha perturbato gli secoli, ha messo in scisma il mondo e
l'ha condotto ad una
etade ferrigna e lutosa ed argillosa, avendo posti gli popoli in ruota ed in
certa vertigine e precipizio, dopo che l'ha
sullevati in superbia ed amor di
novità, e libidine de l'onore e gloria
d'un particolare? Quello che, in
sustanza, non dissimile a tutti, e tal volta, in dignitade
e merito, è infimo a
que' medesimi, con malignitade è stato forse superiore a
molti, e però viene ad
essere in potestà di evertere le leggi de
la natura, di far legge la sua
libidine, a cui servano mille querele,
mille orgogli, mille ingegni, mille
sollecitudini, mille di ciascuno de gli altri compagni,
con gli quali cossì
boriosa è passata avanti la Fatica; senza gli altri che
sotto le vesti di que'
medesimi coperti ed occolti non son
apertamente giti, come l'Astuzia, la
Vanagloria, il Dispreggio d'altri, la Violenza, la
Malizia, la Fizione e gli
seguaci loro che non son passati per la presenza vostra;
quai sono Oppressione,
Usurpazione, Dolore, Tormento, Timore e Morte; li quali
son gli executori e
vendicatori mai del quieto Ocio, ma sempre
della sollecita e curiosa Industria,
Lavoro, Diligenza, Fatica; e cossì di tanti altri nomi, di
quanti, per meno
essere conosciuta, se intitula, e per
quali più tosto si viene ad occoltare che
a farsi sapere.
5 Tutti lodano la bella età de l'oro, ne la quale facevo gli
animi quieti e
tranquilli, absoluti da questa vostra
virtuosa dea; a gli cui corpi bastava il
condimento de la fame a far più suave e
lodevol pasto le ghiande, li pomi, le
castagne, le persiche e le radici, che la
benigna natura administrava, quando
con tal nutrimento meglio le nutriva,
più le accarezzava e per più tempo le
manteneva in vita, che non possano far
giamai tanti altri artificiosi condimenti
ch'ha ritrovati l'Industria ed il Studio,
ministri di costei; li quali,
ingannando il gusto ed allettandolo,
amministrano come cosa dolce il veleno; e
mentre son prodotte più cose che piaceno al gusto, che
quelle che giovano al
stomaco, vegnono a noiar alla sanità e
vita, mentre sono intenti a compiacere
alla gola. Tutti magnificano l'età de
l'oro, e poi stimano e predicano per virtù
quella manigolda che la estinse,
quella ch'ha trovato il mio ed il tuo: quella
ch'ha divisa e fatta propria a costui e colui non solo la
terra (la quale è data
a tutti gli animanti suoi), ma, ed oltre, il mare, e forse
l'aria ancora.
Quella, ch'ha messa la legge a gli altrui diletti,
ed ha fatto che quel tanto
che era bastante a tutti, vegna ad essere soverchio a
questi e meno a
quell'altri; onde questi, a suo mal grado, crapulano,
quelli altri si muoiono di
fame. Quella ch'ha varcati gli mari,
per violare quelle leggi della natura,
confondendo que' popoli che la benigna
madre distinse, e per propagare i vizii
d'una generazione in un'altra; perché non son cossì propagabili le virtudi,
eccetto se vogliamo chiamar virtudi e bontadi
quelle che per certo inganno e
consuetudine son cossì nomate e credute, benché gli effetti e frutti sieno
condannati da ogni senso e ogni natural raggione. Quai
sono le aperte ribaldarie
e stoltizie e malignitadi
di leggi usurpative e proprietarie del mio e
tuo; e
del più giusto, che fu più forte possessore;
e di quel più degno, che è stato
più sollecito e più industrioso e primiero occupatore di que' doni e membri de
la terra, che la natura e, per conseguenza, Dio
indifferentemente donano a
tutti.
6 Io forse sarò men faurita che costei? Io,
che col mio dolce che esce dalla
bocca della voce de la natura, ho insegnato
di viver quieto, tranquillo e
contento di questa vita presente e certa, e di prendere
con grato affetto e mano
il dolce che la natura porge, e non come ingrati ed irreconoscenti neghiamo ciò
che essa ne dona e detta, perché il medesimo ne dona e
comanda Dio, autor di
quella a cui medesimamente verremo ad essere ingrati.
Sarà, dico, più favorita
costei, che, sì rubella e sorda a gli consegli, e ritrosa
e schiva contra gli
doni naturali, adatta li suoi pensieri e mani ad artificiose imprese e
machinazioni, per quali è corrotto
il mondo e pervertita la legge de la nostra
madre? Non udite come a questi tempi, tardi accorgendosi
il mondo di suoi mali,
piange quel secolo, nel quale col mio
governo mantenevo gaio e contento il geno
umano, e con alte voci e lamenti abomina il
secolo presente, in cui la
Sollecitudine ed industriosa Fatica, conturbando, si dice moderar il tutto con
il sprone dell' ambizioso Onore?
O bella età de l'oro
Se 'n corse il fiume e stillò
mèle il bosco;
Non perché i frutti loro
Le terre, e gli angui errar
senz'ira e tòsco;
Non spiegò allor suo velo,
E 'n primavera eterna,
Ch'ora s'accende e verna,
Rise di luce e di sereno
il cielo,
O guerra o merce a l'altrui lidi il pino:
Ma sol perché quel vano
Nome senza soggetto,
Quel idolo d'errori, idol d'inganno,
Quel che dal volgo insano
Che di nostra natura il feo tiranno,
Non meschiava il suo affanno
De l'amoroso gregge;
Né fu sua dura legge
Nota a quell' alme in libertade avezze,
Ma legge aurea e felice,
Che Natura scolpì: S'ei piace, ei lice.
7 Questa, invidiosa alla quiete e beatitudine,
o pur ombra di piacere che in
questo nostro essere possiamo prenderci,
avendo posta legge al coito, al cibo,
al dormire, onde non solamente meno delettar
ne possiamo, ma per il più sovente
dolere e tormentarci; fa
che sia furto quel che è dono di natura, e vuol che si
spregge il bello, il dolce, il buono; e
del male amaro e rio facciamo stima.
Questa seduce il mondo a lasciar il certo
e presente bene che quello tiene, ed
occuparsi e mettersi in ogni strazio per
l'ombra di futura gloria. Io di quel
che con tanti specchi, quante son stelle in cielo, la
verità dimostra, e quel
che con tante voci e lingue, quanti son belli oggetti,
la natura di fuore
intona, vegno da tutti lati de l'interno
edificio ad. esortarlo:
Lasciate l'ombre ed abbracciate il vero.
Non cangiate il presente col futuro.
Voi siete il veltro che nel rio trabocca,
Mentre l'ombra desia di quel ch'ha in
bocca.
Aviso non fu mai di saggio o scaltro
Perder un ben per acquistarne un altro.
A che cercate sì lungi diviso
Se in voi stessi trovate il paradiso?
Anzi, chi perde l'un mentre è nel mondo
Non speri dopo morte l'altro bene.
Perché si sdegna il ciel dar il secondo
A chi il primero don caro
non tene;
Cossì credendo alzarvi, gite al fondo;
Ed ai piacer togliendovi, a le pene
Vi condannate; e con inganno eterno,
Bramando il ciel, vi state ne l'inferno.
8 Qua rispose Momo, dicendo che il conseglio non aveva
tanto ocio, che potesse
rispondere a una per ciascuna de le raggioni che l'Ocio,
per non aver avuta
penuria d'ocio, ha possute intessere
ed ordinare. Ma che per il presente si
servisse de l'esser suo, con andar ad
aspettar per tre o quattro giorni; perché
potrà essere che, per trovarsi gli dei in ocio, potessero determinar qualche
cosa in suo favore; il che adesso è impossibile. Soggionse
l'Ocio: - Siami
lecito, o Momo, di apportar un altro paio di raggioni, in
non più termini che in
forma di un paio di sillogismi, più in materia efficaci
che in forma. De quali
il primo è questo: al primo padre de gli uomini, quando
era buon omo, ed a la
prima madre de le femine, quando era buona
femina, Giove gli concese me per
compagno; ma, quando devenne questa trista e quello tristo, ordinò Giove che se
gli aventasse quella per compagna, a fin
che facesse a costei sudar il ventre ed
a colui doler la fronte.
9 \ SAUL.\ Dovea dire: sudar a colui la fronte, e doler a
colei il ventre.
10 \ SOFIA\ - Or considerate, dei, disse,
la conclusione che pende da quel che
io fui dechiarato compagno de l'Innocenza,
e costei compagna del peccato. Atteso
che, se il simile s'accompagna col simile, il degno col condegno, io vegno ad
esser virtude e colei vizio, e per tanto io degno e lei
indegna di tal sedia. Il
secondo sillogismo è questo: Li dei son
dei, perché son felicissimi; li felici
son felici, perché son senza sollecitudine e fatica:
fatica e sollecitudine non
han color che non si muoveno ed alterano;
questi son massime quei ch'han seco
l'Ocio; dunque gli dei son dei, perché han seco l'Ocio.
11 \ SAUL.\ Che disse Momo a questo?
12 \ SOFIA\ Disse che, per aver studiato
logica in Aristotele, non aveva
imparato di rispondere a gli argumenti in
quarta figura.
13 \ SAUL.\ E Giove che disse?
14 \ SOFIA\ Che di tutto, che lei avea detto e lui udito,
non si ricordava altro
che l'ultima raggione circa l'essere stato compagno del
buono uomo e femina;
intorno alla quale gli occorreva, che gli
cavali non pertanto son asini, perché
si trovano in compagnia di quelli, né giamai la pecora è capra tra le capre. E
soggionse che gli dei aveano donato a l'uomo l'intelletto
e le mani, e l'aveano
fatto simile a loro, donandogli facultà
sopra gli altri animali; la qual
consiste non solo in poter operar secondo
la natura ed ordinario, ma, ed oltre,
fuor le leggi di quella; acciò, formando
o possendo formar altre nature, altri
corsi, altri ordini con l'ingegno, con
quella libertade, senza la quale non
arrebe detta similitudine, venesse ad serbarsi
dio de la terra. Quella certo,
quando verrà ad essere ociosa, sarà frustratoria
e vana, come indarno è l'occhio
che non vede, e mano che non apprende. E per questo ha
determinato la
providenza, che vegna occupato ne l'azione per le mani, e
contemplazione per
l'intelletto; de maniera che non contemple senza azione, e
non opre senza
contemplazione. Ne l'età dunque de l'oro per l'Ocio gli uomini
non erano più
virtuosi che sin al presente le bestie son virtuose, e
forse erano più stupidi
che molte di queste. Or essendo tra essi per l'emulazione
d'atti divini ed
adattazione di spirituosi
affetti nate le difficultadi, risorte
le necessitadi,
sono acuiti gl'ingegni, inventate
le industrie, scoperte le arti; e sempre di
giorno in giorno, per mezzo de l'egestade, dalla profundità de l'intelletto
umano si eccitano nove e maravigliose
invenzioni. Onde sempre più e più per le
sollecite ed urgenti occupazioni
allontanandosi dall'esser bestiale, più
altamente s' approssimano a l'esser divino.
De le ingiustizie e malizie che
crescono insieme con le industrie, non ti
devi maravigliare; perché, se gli bovi
e scimie avessero tanta virtù ed ingegno, quanto gli
uomini, arrebono le
medesime apprensioni, gli medesimi affetti
e gli medesimi vizii. Cossì tra gli
uomini quei ch'hanno del porco, de l'asino e del bue, son
certo men tristi, e
non sono infetti di tanti criminosi
vizii; ma non per ciò sono più virtuosi,
eccetto in quel modo con cui le bestie, per non esser
partecipi di altretanti
vizii, vegnono ad esser più virtuose de loro. Ma noi non
lodiamo la virtù de la
continenza nella scrofa, la quale si
lascia chiavare da un sol porco ed una
volta l'anno; ma in una donna la quale non solo è sollecitata una volta dalla
natura per il bisogno de la generazione, ma ed ancora dal
proprio discorso più
volte per l'apprensione del piacere, e per esser ella
ancor fine degli suoi
atti. Oltre di ciò non troppo, ma molto poco lodiamo di
continenza una femina o
un maschio porcino, il quale per stupidità
e durezza di complessione avien che
di rado e con poco senso vegna sollecitato da la libidine, come quell'altro che
per esser freddo e maleficiato, e
quell'altro per esser decrepito; altrimente
deve esser considerata la continenza, la
quale è veramente continenza e
veramente virtù in una complessione più gentile, più ben
nodrita, più ingegnosa,
più perspicace e maggiormente apprensiva. Però per la generalità de regioni a
gran pena è virtù ne la Germania, assai è virtù ne la
Francia, più è virtù ne
l'Italia, di vantaggio è virtù nella Libia. Là onde, se
più profondamente
consideri, tanto manca che Socrate revelasse qualche suo difetto, che più tosto
venne a lodarsi tanto maggiormente di
continenza, quando approvò il giudicio del
fisionomista circa la sua natural inclinazione al sporco amor di gargioni. Se
dunque, Ocio, consideri quello che si deve considerar da
questo, trovarai che
non per tanto nella tua aurea etade gli uomini erano
virtuosi, perché non erano
cossì viziosi, come al presente; atteso che è differenza
molta tra il non esser
vizioso e l'esser virtuoso; e non cossì facilmente l'uno
si tira da l'altro,
considerando che non sono medesime
virtudi dove non son medesimi studi, medesimi
ingegni, inclinazioni e complessioni. Però, per
comparazione da pazzi ed ingegni
cavallini, aviene che gli barbari e salvatici si tegnon megliori che noi altri
dei, per non esser notati di que' vizii medesimi; per ciò
che le bestie, le
quali son molto meno in tai vizii notabili che essi,
saranno per questo molto
più buone che loro. A voi dunque, Ocio e Sonno, con la
vostra aurea etade
converrà bene che non siate vizii qualche volta ed in
qualche maniera; ma giamai
ed in nessun modo che siate virtudi. Quando dunque tu,
Sonno, non sarai Sonno, e
tu, Ozio, sarai Negocio, allora sarete connumerati
tra virtudi ed essaltati. -
Qua il Sonno si fece un passetto avanti,
e si fricò alquanto gli occhi per dire
ancora lui qualche cosetta ed apportar
qualche picciolo proposito avanti il
Senato, per non parer d'esservi venuto in vano. Quando
Momo il vedde cossì
suavemente rimenarsi pian pianino, rapito
dalla grazia e vaghezza de la dea
Oscitazione, che, come aurora avanti il
sole, precedeva avanti a lui, in punto
di voler far ella il prologo; e non osando di scuoprir il suo amor in conspetto
de gli dei, per non essergli lecito di accarezzar
la fante, fece carezze al
signore in questa foggia (dopo aver
gittato un caldetto suspiro), parlando per
lettera, per fargli più riverenza ed onore:
Somne, quies rerum, placidissime somne deorum,
Pax animi, quem cura fugit,
qui corpora duris
Fessa ministeriis mulces reparasque labori.
15 Non sì tosto ebbe cominciata questa cantilena il dio de le riprensioni (il
quale per la già detta caggione s'era dismenticato
de l'ufficio suo), che il
Sonno, invaghito per il proposito di tante lodi
e demulcto dal tono di quella
voce, invita a l'udienza il Sopore che gli
alloggiava ne gli precordii. Il
quale, dopo aver fatto cenno alle fumositadi che faceano
residenza nel stomaco,
gli montorno tutti insieme sul cervello,
e cossì vennero ad aggravarli la testa,
e con questo vennero a discioperarsi gli
sensi. Or mentre il Ronfo sonavagli li
scifoli e tromboni
innante, andò trepidando trepidando a curvarsi e dar il capo
in seno di madonna Giunone; e da quel chino avenne (perché
questo dio va sempre
in camicia e senza braghe) che, per essere la camicia
troppo corta, mostrò le
natiche, il coliseo e la punta del campanile a Momo e tutti gli altri dei
ch'erano da quella parte. Or, con questa occasione, ecco
venuto in campo il
Riso, con presentar a gli occhi del Senato la prospettiva
di tanti ossetti, che
tutti eran denti; e facendosi udire con la dissonante
musica di tanti cachinni,
interruppe il filo de l'orazione a Momo. Il qual, non possendosi risentir contra
costui, tutto il sdegno suo converse contra il Sonno che
l'avea provocato, con
non premiarlo al meno di buona
attenzione, e di sopragionta con andar ad
offrirgli con tanta sollennitade
il purgatorio, con la pera e baculo di
Giacobbe, come per maggior dispreggio del
suo adulatorio ed amatorio dicendi
genus. Là onde ben si accorgeva
che gli dei non tanto ridevano per la condizion
del Sonno, quanto per il strano caso intervenuto
a lui, e perché il Sonno era
giocatore ed egli era suggetto di questa comedia; e con
ciò avendogli la
Vergogna d'un velo sanguigno ricoperto il volto: - A chi
tocca, disse, di
levarci dinanzi questo ghiro?
chi fa che sì a lungo questo ludibrioso specchio
ne si presente a gli occhi? - In tanto la dea Poltronaria,
commossa da la
rabbiosa querela di Momo (dio de' non più
volgari ch'abbia il cielo), se mise il
suo marito in braccio; e presto, avendolo
indi tolto, lo menò verso la cavità
d'un monte vicino a gli Cimmerii; e con
questi si partiro li suoi tre figli
Morfeo, Icilone e Fantaso; che tutti tosto si ritrovorno là dove
da la terra
perpetue nebbie exalano, caggionando eterno crepuscolo
a l'aria: dove vento non
soffia, e la muta Quiete tiene un suo palaggio ancora
vicino a la regia del
Sonno; avanti il cui atrio è un giardino
di tassi, faghi, cipressi, bussi e
lauri; nel cui mezzo è una fontana,
che deriva da un picciol rio, che dal rapido
varco del fiume leteo, divertendo dal
tenebroso inferno alla superficie de la
terra, ivi viene a discuoprirsi al cielo
aperto. Qua il dormiglioso dio rimesero
nel suo letto, di cui d' ebano le tavole,
di piume i strami ed il padiglion di
16 In questo mentre, presa avendo licenza il Riso, se partì dal conclave; ed
essendo rimesse al suo sesto le bocche e ganasse de gli dei, che poco mancò che
non venesse smascellato alcuno di essi,
l'Ocio, il qual solo ivi era rimaso,
vedendo il giudicio de' dei non troppo inchinato al suo
favore, e desperando di
profittar oltre in qualche maniera, se le
sue quasi tutte e più principali
raggioni non erano accettate, ma, tante
quante fûro, di rovescio erano state
ributtate a terra, dove per forza de la repulsa altre erano mal vive, altre
erano crepate, altre aveano il collo rotto, altre in tutto erano andate in pezzi
e fracasso: stimava ogni
momento un anno, per pigliar occasione di tôrsi de là
di mezzo, prima che forse gli potesse intravenire
qualche vituperosa disgrazia
simile a quella del suo compagno, per rispetto del quale dubitava che Momo non
gli aggravasse le censure
contra. Ma quello, scorgendo il spavento, che costui
aveva di fatti non suoi: - Non dubitar, povera persona,
gli disse; perché io,
instituito dal fato advocato de poveri,
non voglio mancar di far la causa tua.
E voltato a Giove, gli disse: - Per il tuo dire, o Padre,
intorno alla causa de
l'Ocio, comprendo che non sei a pieno informato
de l'esser suo, della sua stanza
e de gli suoi ministri e corte; la qual certamente se
verrai a conoscere,
facilmente mi persuado che, se non come
Ocio lo vuoi incatedrare nelle stelle,
almeno come Negocio lo farai alloggiare
insieme con quell'altro, detto e stimato
suo nemico; con il qual, senza farsi male l'un l'altro,
potrà far perpetuo
soggiorno. - Rispose Giove, che lui desiderava occasione di poter giustamente
contentar l'Ocio, de le cui carezze non è
mortale né dio che non soglia sovente
delettarsi; però che volentieri l' ascoltarebbe, se gli facesse intendere qualche
nervosa causa in suo favore. - Ti par,
Giove, disse, che in casa de l'Ocio sia
ocio, quanto a la vita attiva, là dove son
tanti gentiluomini di compagnia e
servitori che si alzano ben per tempo la mattina, per
lavarsi tre e quatro volte
con cinque o sette sorte d'acqua il volto e le mani, e che
col ferro caldo e con
l' impeciatura di felce spendeno due ore ad incresparsi
e ricciarsi la chioma,
imitando la alta e grande providenza, da
cui non è capello di testa che non
viene ad essere esaminato, acciò di
quello secondo la sua raggione vegna
disposto? Dove appresso con tanta diligenza si rassetta il giuppone, con tanta
sagacità si ordinano le piegature
del collaio, con tanta moderanza s' affibiano
gli bottoni, con tanta gentilezza s'accomodano gli polsi, con tanta delicatura
si purgano e si contemprano
le unghie, con tanta giustizia, moderanza ed equità
s' accopulano le braghe col giubbone, con
tanta circonspezione si disponeno que'
nodi de le stringhe; con
tanta sedulità si menano e rimenano le cave palme, per
far andar a sesto la calzetta; con tanta
simmetria vanno a proporzionarsi gli
termini e confini dove l' orificii de cannoni de le braghe s' uniscono a le
calzette in circa la piegatura de le ginocchia, con tanta
pazienza si comportano
gli artissimi legami o garrettiere, perché non diffluiscano le
calzette a far le
pieghe e confondere la proporzione di
quelle con le gambe; dove col polso della
difficultade dispensa e decerne il
giudicio, che, non essendo leggiadro e
convenevole che la scarpa s' accommode al
piede, vegna il piede largo, distorto,
nodoso e rozzo, al suo
marcio dispetto, ad accomodarsi con la scarpa stretta,
dritta, tersa e gentile?
Dove con tanta leggiadria si muoveno gli passi, si
discorre, per farsi contemplare, la cittade, si visitano ed intertegnono
le
dame, si balla, si fa de capriole, di correnti, di branli, di tresche;
e quando
altro non è che fare, per essersi stancato
ne le dette operazioni, ad evitar
l'inconveniente di commettere errori, si siede a giocare
di giuochi da tavola,
ritrandosi da gli altri più forti e faticosi: ed in tal maniera s' evitano tutti
li peccati, se quelli non son più che sette mortali e
capitali, perché, come
disse un Genoese giocatore: - Che Superbia
vuoi tu ch'abbia un uomo il quale,
avendo perduti cento scudi con un conte,
si mette a giocar per vencere quattro
reali ad un famiglio? Che
Avarizia può aver colui a cui mille scudi non durano
otto giorni? Che Lussuria ed Amor
cupidinesco può trovarsi in quello il quale ha
messa tutta l'attenzion del spirto al giocare? Come potrai
arguire d'Ira colui,
che per tema ch'il compagno non si parta dal giuoco
comporta mille ingiurie, e
con gentilezza e pazienza risponde ad un orgoglioso che
gli è avanti? Per qual
modo può esser goloso chi mette ogni
dispendio e applica ogni sollecitudine a
l'esercizio suo? Che Invidia può essere in costui per quel
ch'altri possieda, se
getta via e par che spreggie il suo? Che
Accidia può essere in quello che
cominciando da mezo giorno, e tal volta da la mattina,
insino a meza notte, mai
cessa di giuocare? E vi par che faccia in
questo mentre star in ocio gli
servitori, e quelli che gli denno assistere,
e quelli che gli denno
administrare? al tempio, al mercato,
a la cantina, a la cocina, a la stalla, al
letto, al bordello? E per farvi vedere, o
Giove, e voi altri dei, che in casa de
l'Ozio non mancano de persone dotte e literate, occupate a studii, oltre quelle
occupate a' negocii, de' quali abbiamo detto: pare a voi,
che in casa de l'Ocio
si stia in ocio quanto a la vita contemplativa, dove non
mancano grammatici che
disputano di chi è stato prima, il nome o
il verbo? Perché l' adiettivo accade
che si pona avanti ed appresso al sustantivo?
Onde ne la dizione alcuna copula,
quale, verbigrazia, et, si pone innanzi ed alcun'altra,
quale per essempio, que,
si pone a dietro? Come lo e e d con la giunta de temone e scissione del d per il
mezzo, viene a far comodamente il ritratto di quel nume di
Lampsaco, che per
invidia commise l' asinicidio?
Chi l' autore a cui legitimamente deve referirsi il
libro della Priapea, il Maron
mantuano, o pur il sulmonese Nasone?
Lascio tanti
altri bei propositi simili, e più gentili che questi.
17 Dove non mancano dialettici che inquireno se Crisaorio, che fu discepolo di
Porfirio, avea bocca d'oro per natura, o
per riputazione, o solamente per
nomenclatura; se la Periermenia
deve passar avanti, o venir appresso, o pur, ad
libitum, mettersi innanzi ed a dietro de
le Categorie; se l'individuo vago deve
esser messo in numero e posto in mezzo, come un sesto predicabile, o pur essere
come scudiero de la specie e caudatario
del geno; se, dopo esser periti in forma
sillogistica, doviamo per la prima applicarne al studio della Posteriore, dove
si complisce l'arte giudicativa, o ver
subito dar su la Topica, per cui si mette
la perfezion de l'arte inventiva; se
bisogna pratticar le captiuncule ad usum
vel ad fugam vel in abusum:
se gli modi, che formano le modali, son quattro, o
quaranta, o quattrocento; non voglio dire
mille altre belle questioni.
18 Dove son gli fisici che dubitano se de le cose naturali
può essere scienza;
se lo suggetto è ente mobile o corpo mobile, o ente
naturale o corpo naturale;
se la materia ave altro atto che entitativo;
dove consiste la linea de la
coincidenza del fisico e matematico; se la
creazione e produzione de niente è o
non; se la materia può essere senza la forma; se più forme
sustanziali possono
essere insieme; ed altri innumerabili simili quesiti
circa cose manifestissime,
se non con disutile investigazioni son
messe in questione. Dove gli metafisici
si rompeno la testa circa il principio
dell' individuazione; circa il suggetto
ente, in quanto ente; circa il provar che
gli numeri aritmetrici e magnitudini
geometriche non son sustanza de le cose;
circa le idee, se è vero ch'abbiano
l'essere subsistenziale da per esse;
circa l'essere medesimo o diverso
subiettivamente ed obbiettivamente;
circa l'essere ed essenzia; circa gli
accidenti medesimi in numero in uno o più suggetti; circa
l' equivocazione,
univocazione ed analogia de lo ente;
circa la coniunzione de le intelligenze a
li orbi stelliferi, se la è per modo di
anima o pur per modo di movente; se la
virtù infinita possa essere in grandezza
finita; circa la unità o pluralità de
primi motori; circa la scala del progresso
finito o infinito in cause
subordinate; e circa tante e tante cose
simili, che fanno freneticar tante
cuculle, fanno lambiccar
il succhio de la nuca a tanti protosofossi.
19 Qua disse Giove: - O Momo, mi par che l'Ocio t'abbia guadagnato o subornato,
che cossì ociosamente spendi il tempo ed
il proposito. Conchiudi, perché è ben
definito appresso di noi di quel che doviamo far di
costui. - Lascio dunque,
soggionse Momo, de referir tanti altri negociosi
innumerabili che sono occupati
in casa di questo dio: come è dir tanti vani versificatori
ch'al dispetto del
mondo si vogliono passar per poeti, tanti scrittori
di fabole, tanti nuovi
rapportatori d'istorie vecchie,
mille volte da mille altri a mille doppia
megliormente referite. Lascio gli algebristi, quadratori di circoli,
figuristi,
metodici, riformatori de dialettiche, instauratori d' ortografie,
contemplatori
de la vita e de la morte, veri postiglioni
del paradiso, novi condottier di vita
eterna novamente corretta e ristampata
con molte utilissime addizioni, buoni
nuncii di meglior pane, di meglior carne e
vino, che non possa esser il greco di
Somma, malvagia di Candia
e asprinio di Nola. Lascio le belle speculazioni
circa
il fato e l'elezione, circa l' ubiquibilità
d'un corpo, circa la eccellenza di
giusticia che si ritrova
ne le sanguisughe. - Qua disse Minerva: - Se non chiudi
la bocca a questo ciancione, o padre, spenderemo in vani discorsi il tempo, e
per il giorno d'oggi non sarà possibile di espedire
il nostro principal negocio.
Però disse il padre Giove a Momo: - Non ho tempo di
raggionar circa le tue
ironie. Ma, per venire alla tua ispedicione, Ocio, ti dico, che quello che è
lodevole e studioso Ocio, deve sedere e
siede nella medesima catedra con la
Sollecitudine, per ciò che la fatica deve maneggiarsi per
l'ocio, e l'ocio deve
contemperarsi per la fatica. Per
beneficio di quello questa fia più
raggionevole, più ispedita e pronta, perché difficilmente
dalla fatica si
procede a la fatica. E sì come le azioni senza premeditazione e considerazione
non son buone, cossì senza l'ocio premeditante
non vagliono. Parimente non può
essere suave e grato il progresso da l'ocio a l'ocio,
percioché questo giamai è
dolce se non quando esce dal seno della fatica. Or fia
dunque giamai, che tu
Ocio, possi esser grato veramente, se non quando succedi a
degne occupazioni.
L'ocio vile ed inerte voglio che ad un animo generoso sia
la maggior fatica che
aver egli possa, se non se gli rapresenta dopo lodabile
esercizio e lavoro.
Voglio che ti aventi come signore alla Senettute, ed a
colei farai spesso
ritorcer gli occhi a dietro; e se la non
ha lasciati degni vestigii, la renderai
molesta, triste, suspetta del prossimo
giudicio dell'impendente staggione che
l'amena a l' inexorabile tribunal di
Radamanto, e cossì vegna a sentir gli orrori
della morte prima che la vegna.
20 \ SAUL.\ Ben disse a questo proposito il Tansillo:
Credete a chi può farven giuramento,
Che stato tristo non ha il mondo ch' aggia
Pena che vada a par del pentimento;
Poi ch'il passato non è chi riaggia.
E benché ogni pentir porti
tormento,
Quel che più ne combatte e più ne
oltraggia
E piaghe stampa che
curar non lece,
È quand'uom poteo molto, e nulla fece.
21 \ SOFIA\ - Non meno, disse Giove; anzi più voglio che
sia triste il successo
dell' inutili negocii, de li quali alcuni
ha recitati Momo che si trovano nella
stanza de l'Ocio; e voglio che s'impiomba l'ira de' dei
contra que' negociosi
ocii ch'hanno messo il mondo in maggior molestie e travagli che mai avesse
possuto mettere negocio alcuno. Que', dico, che vogliono
convertere tutta la
nobiltà e perfezione della vita umana in sole ociose credenze e fantasie, mentre
talmente lodano le sollecitudini ed opre di giustizia, che
per quelle dicano
l'uomo non rendersi (benché si manifeste) megliore; e
talmente vituperano gli
vizii e desidie, che per quelli dicano gli
uomini non farsi meno grati a que'
dei a' quali erano grati, con tutto che ciò, e peggio,
esser dovea. Tu, Ocio
inerte, disutile e pernicioso, non aspettar che della tua
stanza si dispona in
cielo e per gli celesti dei; ma nell'inferno per gli
ministri del rigoroso ed
22 Or non voglio riferire quanto ociosamente si portava
l'Ocio nel caminarsene
via, e con quante spuntonate incitato
a pena si sapea muovere, se non che
constretto dalla dea Necessitade, che gli dié de' calci,
se rimosse da là,
lamentandosi del conseglio, che non gli
avea voluto concedere alcuni giorni di
tempo e di termine, per partirsi dalla loro conversazione.
Seconda parte del
terzo dialogo.
1 \ SOFIA\ Allora Saturno fece instanza a Giove, che nel disponere delle altre
sedie fusse più ispedito, perché la sera s' approssimava;
e che solamente
s' attendesse al negocio principale di levare e mettere; e quanto a quello
ch'appartiene a l'ordine con cui le virtù di dee ed altri
si debano governare,
si determinarà verso la più prossima festa
principale, quando converrà
ch'un'altra volta li dei convegnano
insieme, che sarà la vigilia del Panteone.
Alla cui proposta con un chino di testa fêrno segno tutti
gli altri dei di
consentire, eccetto la Pressa, la
Discordia, l' Intempestività ed altri. - Cossì
pare ancora a me, disse l'altitonante. - Su, dunque,
soggionse Cerere: dove
vogliamo inviar il mio Triptolemo, quel carrettiero
che vedete là, quello per
cui diedi il pane di frumento a gli
uomini? Volete ch'io lo mande alle contrade
de l'una e l'altra Sicilia, dove faccia la residenza; come
vi ha tre tempii
miei, che per sua diligenza ed opra mi fûro consecrati,
l'uno nella Puglia,
l'altro nella Calabria, l'altro nell'istessa Trinacria? -
Fate quel che vi piace
del vostro cultore e ministro, o figlia, disse Giove. Alla
cui sedia succeda, se
cossì pare a voi ancora, dei, la Umanità, che in nostro
idioma è detta la dea
Filantropia; di cui questo auriga
massimamente par che sia stato il tipo. Lascio
che lei fu che spinse te, Cerere, ad
inviarlo, e che poi guidò lui ad eseguire i
tuoi benefìci verso il geno umano. - Cossì
è certo, disse Momo; percioché lei è
quella per cui Bacco fa ne gli uomini sì bel sangue, e
Cerere sì bella carne
quale essere non posseva nel tempo de
castagne, fave e ghiande. A questa dunque
la Misantropia fugga avanti con la Egestade; e come è
consueto e raggionevole,
de le due ruote del suo carro la sinistra
sia il Conseglio, la destra sia
l'Aggiuto; e de' doi mitissimi draghi
che tirano il temone, da la sinistra sarà
la Clemenzia, da la destra il Favore.
2 Propose appresso Momo a Mercurio quel che volesse fare
del Serpentauro,
perché gli parea buono ed accomodato per inviarlo a far il
Marso chiarlatano,
avendo quella grazia di maneggiar senza
timore e periglio un tale e tanto
serpente. Propose anco del serpente al radiante
Apolline, se lo volea per cosa
da servire a' suoi maghi e malefici, come è
dire alle sue Circe e Medee per
esecutar gli veneficii; o ver lo volea
concedere a' suoi medici, come è dire ad
Esculapio per farne tiriaca. Propose oltre
a Minerva, se quest'uno gli avesse
possuto servire per inviarlo a far vendetta di qualche
risorto nemico Laocoonte.
Prendalo chi lo vuole, disse il gran
Patriarca; e facciane quel che si voglia,
tanto del serpe, quanto de l'Ofiulco, pur che si tolgano da là; ed in suo luogo
succeda la Sagacità, la qual suole vedersi
ed admirarsi nel Serpente. - Succeda
dunque la Sagacitade, dissero tutti,
atteso che non è men degna del cielo che la
sua sorella Prudenza; perché dove quella sa comandare e
mettere in ordine quel
che s'è da fare e lasciare per venire a
qualche dissegno, questa sappia prima e
poi giudicare per forza di buona
intelligenza, che la è; e discaccia la
Grossezza, Inconsiderazione ed Ebetudine
da le piazze, dove le cose si metteno
in dubio o in consultazione. Dalli vasi della sapienza imbeva il sapere, onde
concepa e parturisca atti di Prudenza.
3 - Della Saetta, disse Momo, perché io mai fui curioso di
saper a chi
appartenesse, cioè, se fusse quella con
cui Apolline uccise il gran Pitone, o
pur quella per cui madonna Venere fece al suo poltroncello
impiagar il feroce
Marte, che per vendetta poi a quella cruda ficcò
un pugnal sotto la pancia in
sino a l' elsa; o pur una memorabile
con la qual Alcide dismese la Regina de le
Stimfalidi; o l'altra per cui l'apro Calidonio dié l'ultimo crollo; o ver sia
reliquia o trofeo di qualche trionfo di Diana la castissima. Sia che si vuole,
riprendesila il suo padrone,
e se la ficche là dove gli piace.
4 - Bene, rispose Giove, tolgasi da là insieme con la
Insidia, la Calumnia, la
Detrazione, atto de Invidia, e la Maldicenza; ed ivi
succeda la buona
Attenzione, Observanza, Elezione e Collimazion di regolato intento. E soggionse:
De l'Aquila, ucello divino ed eroico e tipo de l'Imperio,
io determino e voglio
cossì, che vada a ritrovarsi in carne ed in
ossa nella bibace Alemagna: dove più
che in altra parte si trovarà celebrata in forma, in
figura, in imagine ed in
similitudine, in tante pitture, in tante statue, in tante celature, quanto nel
cielo stelle si possono presentar a gli occhi de la
Germania contemplativa. La
Ambizione, la Presunzione, la Temeritade, la Oppressione,
la Tirannia ed altre
compagne e ministre di queste dee non bisogna che le mene seco là dove li
bisognarebbe a tutte star in ocio;
percioché la campagna non è troppo larga per
esse; ma prendano il suo volo lungi da quel
diletto almo paese, dove gli scudi
son le scudelle, le celate
son le pignatte e lavezzi, gli brandi
son l'ossa
inguainate in carne salata,
le trombe son gli becchieri, urcioli
e gli bocali,
gli tamburi son gli barilli e botte,
il campo è la tavola da bere, volsi dir da
mangiare; le forterezze, gli baloardi,
gli castegli, li bastioni son le cantine,
le popine, le ostarie, che son di più gran
numero che le stanze medesime. - Qua
Momo disse: - Perdonami, gran padre, s'io
t' interrompo il parlare. A me pare che
queste dee compagne e ministre, senza che vi le mandi, vi si trovano; perché
l'Ambizione circa l'essere superiore a tutti in farsi
porco; la Presunzione del
ventre, che pretende di ricevere non meno
di alto che da alto vaglia mandar a
basso il gorgazuolo; la Temeritade, con
cui vanamente il stomaco tenta digerire
quel che or ora, presto presto è necessario di vomire; la
Oppressione de sensi e
natural calore; la Tirannia della vita vegetativa,
sensitiva ed intellettiva
regnano più in questa sola che in tutte l'altre parti di
questo globo. - È vero,
o Momo, soggionse Mercurio; ma tali Tirannie, Temeritadi,
Ambizioni ed altre
simili cacodee, con le loro cacodemonesse,
non son punto aquiline, ma da
sanguisughe, pacchioni, sturni e ciacchi.
Appresso, per venire al proposito
della sentenza di Giove, la mi par molto pregiudiziosa
alla condizione, vita e
natura di questo regio ucello; il quale, perché poco beve
e molto mangia e vora,
perché ha gli occhi tersi e netti, perché è veloce nel corso,
perché e con la
levità de l'ali sue sopravola al cielo ed
è abitante di luoghi secchi, sassosi,
alti e forti, non può aver simbolo ed
accordo con generazion campestre; ed a cui
la doppia soma degli bragoni par che a forte contrapeso le
impiomba verso il
profondo e tenebroso centro; e che si fa gente sì tarda e greve, non tanto
inetta a perseguitare e
fuggire, quanto buona a tener fermo ne le guerre; e che
per la gran parte è soggetta al mal degli occhi, e che
incomparabilmente più
beve che mangia. - Quel che ho detto, è detto, rispose
Giove. Dissi, che vi si
presente in carne ed in ossa per veder gli suoi ritratti;
ma non già, che vi
stia come in prigione, o che manca di
trovarsi là, dovunque è in spirito e
veritade con altre e più degne raggioni con gli già detti
numi: e questa sedia
gloriosa lancie a tutte quelle virtudi, de
le quali può esser stata vicaria:
come è dire, a la dea Magnanimità, Magnificenza,
Generosità ed altre sorelle e
ministre di costoro.
5 - Or che faremo, disse Nettuno, di quel Delfino? Piacevi ch'io lo metta nel
mar di Marseglia, onde per il Rodano fiume vada e rivegna a volte a volte,
visitando e rivisitando il Delfinato? -
Cossì si faccia presto, disse Momo;
perché, a dire il vero, non mi par cosa meno da ridere, se alcuno
Delphinum caelis appinxit, fluctibus
aprum,
che se
Delphinum sylvis appinxit, fluctibus
aprum.
6 - Vada, dove piace a Nettuno, disse Giove; ed in suo
luogo succeda la figurata
Dilezione, Affabilità, Officio con gli suoi compagni e
ministri. - Dimandò
Minerva che il cavallo Pegaseo, lasciando le vinti lucide macchie e la
Curiositade, se ne vada al fonte caballino
già per molto tempo confuso,
destrutto ed inturbidato
da bovi, porci ed asini; e veda, se con gli calci e
denti possa far tanto che vendiche quel
loco da sì villano concorso: a fin che
le Muse, veggendo l'acqua del fonte posta
in buono ordine e rassettata, non si
sdegnino di ritornarvi, e
farvi gli lor collegii e promozioni. Ed in questo
luogo del cielo succeda il Furor divino, il Rapto,
l'Entusiasmo, il Vaticinio,
il Studio ed Ingegno con gli lor cognati
e ministri, onde eternamente da su
l'acqua divina, per lavar gli animi ed abbeverar
gli affetti, stille a gli
mortali. - Tolgasi, disse Nettuno, questa Andromeda, se
cossì piace a voi dei;
la quale per la mano de l'Ignoranza è stata avinta al
scoglio dell'Ostinazione
con la catena di perverse raggioni e
false opinioni, per farla traghiuttir dal
ceto della perdizione e final ruina, che per l'instabile e
tempestoso mare va
discorrendo; e sia commessa alle provide
ed amiche mani del sollecito, laborioso
ed accorto Perseo, ch'avendola indi disciolta
e tolta, dall'indegna cattività la
promova al proprio degno acquisto. E di
quel che deve succedere al suo loco tra
le stelle dispona Giove. - Là, rispose il padre de gli
dei, voglio che succeda
la Speranza, quella che, co' l'aspettar frutto degno delle
sue opre e fatiche,
non è cosa tanto ardua e difficile a cui
non accenda gli animi tutti, i quali
aver possono senso di qualche fine. - Succeda, rispose
Pallade, quel santissimo
scudo del petto umano, quel divino fundamento
de tutti gli edificii di bontade,
quel sicurissimo riparo della Veritade;
quella che per strano accidente
qualsivoglia mai si diffida, perché sente
in sé stessa gli semi della propria
sufficienza, li quali da quantunque violento polso non gli
possono essere
defraudati; quella in virtù della quale è
fama che Stilbone vencesse la vittoria
de' nemici; quel Stilbone, dico, il quale scampato
da le fiamme che
gl' incinerivano la patria, la casa, la
moglie, i figli e le facultadi, a
Demetrio rispose aver tutte le cose sue
seco, perché seco avea quella Fortezza,
quella Giustizia, quella Prudenza, per quali meglio possea
sperar consolazione,
scampo e sustegno di sua vita; e per le
quali facilmente il dolce di questa
sprezzarebbe. - Lasciamo questi colori,
disse Momo, e vengasi presto a veder
quello che si de' fare di quel Triangolo o Delta.
- Rispose la astifera Pallade:
Mi par degno che sia messo in mano del Cardinal
di Cusa, a fin che colui veda,
se con questo possa liberar gli impacciati geometri da quella fastidiosa
inquisizione della quadratura del circolo, regolando
il circolo ed il triangolo
con quel suo divino principio della commensurazione
e coincidenza de la massima
e minima figura: cioè di quella che costa di minimo, e de
l'altra che costa di
massimo numero degli angoli. Portisi
dunque questo trigono con un circolo ch'il
comprende, e con un altro che da lui sia
compreso; e con la relazione di queste
due linee (de quali l'una dal centro va al
punto della contingenzia del circolo
interno con il triangolo esterno; l'altra dal medesimo
centro si tende a l'uno
de gli angoli del triangolo) vegna a compirsi
quella tanto tempo e tanto
vanamente cercata quadratura.
7 Qua risorse Minerva, e disse: - Ma io, per non parer
meno cortese a le Muse,
voglio inviar a gli geometri incomparabilmente maggiore e
meglior dono, che
questo ed altro che sia sin ora donato; per cui il Nolano,
al quale fia
primieramente revelato, e dalla cui mano venga diffuso
alla moltitudine, mi
debbia non solamente una, ma cento ecatombi;
perché in virtù della contemplazion
de l'equità che si trova tra il massimo e minimo, tra l' extimo ed intimo, tra il
principio e fine, gli porgo una via più feconda, più
ricca, più aperta e più
sicura; la quale non solamente dimostre
como il quadrato si fa uguale al
circolo, ma, ed oltre, subito, ogni trigono, ogni
pentagono, ogni exagono, e
finalmente qualsivoglia e quantosivoglia poligònia figura;
dove non meno fia
uguale linea a linea che superficie a superficie, campo a
campo, e corpo a corpo
8 \ SAUL.\ Questa sarà cosa eccellentissima,
ed un tesoro inestimabile per gli
9 \ SOFIA\ Tanto eccellente e degna, che certo parmi che contrapese a
l'invenzione di tutto il rimanente della geometrica
facultade. Anzi da qua pende
un'altra più intiera, più grande, più ricca, più facile,
più esquisita, più
breve e niente men certa; la quale qualsivoglia figura
poligònia viene ad
comensurare per la linea e superficie del
circolo; ed il circolo per la linea e
superficie di qualsivoglia poligonìa.
10 \ SAUL.\ Vorrei quanto prima intendere il modo.
11 \ SOFIA\ Cossì disse Mercurio a Minerva; a cui quella
rispose: - Prima (nel
modo che tu fatto hai) dentro questo triangolo descrivo un circolo, che massimo
discriver vi si possa; appresso fuor di
questo triangolo ne delineo un altro che
minimo delinear si possa sin al contatto
de gli tre angoli; e quindi non voglio
procedere a quella tua fastidiosa quadratura, ma al facile
trigonismo, cercando
un triangolo che abbia la linea uguale alla linea del
circolo, ed un altro che
vegna ad ottenere la superficie uguale alla superficie del
circolo. Questo sarà
uno circa quel triangolo mezzano, equidistante
da quello che contiene il
circolo, e quell'altro ch'è contenuto dal circolo; il
quale lascio, che con il
proprio ingegno altri lo prenda cossì, perché mi basta
aver mostrato il luogo
de' luoghi. Cossì, per quadrare il
circolo, non fia mestiero di prendere il
triangolo, ma il quatrangolo che è tra il massimo interno
e minimo esterno al
circolo. Per pentagonare il circolo, prenderassi il mezzo tra il massimo
pentagono contenuto dal circolo e minimo continente
del circolo. Similmente
farassi sempre, per far qualsivoglia altra
figura uguale al circolo in campo ed
in linea. Cossì oltre, per essere trovato il circolo del
quadrato uguale al
circolo del triangolo, verrà trovato il quadrato di questo
circolo pare al
triangolo di quell'altro circolo, di medesma
quantità con questo.
12 \ SAUL.\ In questo modo, o Sofia, si possono far tutte
l'altre figure uguali
ad altre figure con l'aggiuto e relazione del circolo, che
fate misura de le
misure. Cioè, se voglio far un triangolo equale al
quatrangolo, prendo quel
mezzano tra gli doi apposti al circolo, con quel mezzano
tra doi quatrangoli
apposti al medesimo circolo, o ver ad un altro uguale. Se
voglio prendere un
quadrato uguale a l'exagono, delinearò
dentro e fuori del circolo e questo e
quello, e prenderò quel mezzano tra gli
doi de l'uno e l'altro.
13 \ SOFIA\ Bene l'hai capito. In tanto
che quindi non solamente s'ha la
equatura di tutte le figure al circolo,
ma ed oltre di ciascuna de le figure a
tutte l'altre mediante il circolo, serbando sempre
l'equalità secondo la linea e
secondo la superficie. Cossì con picciola considerazione o
attenzione ogni
equalità e proporzione di qualsivoglia corda
a qualsivogli'arco si potrà
prendere, mentre o intiera, o divisa, o con certe raggioni
aumentata viene a
constituir poligonìa tale, che in detta
maniera da cotal circolo sia compresa, o
14 - Or definiscasi presto, disse Giove,
di quel che vogliamo collocarvi. -
Rispose Minerva: - Mi par, che vi stia bene la Fede e
Sinceritade, senza la
quale ogni contratto è perplesso e dubio,
si dissolve ogni conversazione, ogni
convitto si destrugge. Vedete a che è
ridutto il mondo, per esser messo in
consuetudine e proverbio, che per regnare non si osserva
fede. Oltre:
agl' infideli ed eretici
non si osserva fede. Appresso: si franga la fede a chi
la rompe. Or che sarà, se questo si mette
in prattica da tutti? A che verrà il
mondo, se tutte le republiche, regni, dominii,
fameglie e particolari diranno,
che si deve esser santo col santo, perverso col perverso?
e si faranno iscusati
d'esser scelerati, perché hanno il scelerato per compagno
o vicino? e pensaranno
che non doviamo forzarci ad esser buoni
assolutamente, come fusseno dei, ma per
commoditade ed occasione, come gli serpenti, lupi ed orsi,
tossichi e veneni? -
Voglio, soggionse il padre, che la Fede sia tra le virtudi
celebratissima; e
questa, se non sarà data con condizione d'un'altra fede,
mai sia lecito di
rompersi per la rottura
de l'altra, atteso che è legge da qualche Giudeo e
Sarraceno bestiale e barbaro,
non da Greco e Romano civile ed eroico, che alcuna
volta e con certe sorte di genti, sol per propria
commoditade ed occasion
d'inganno, sia lecito donar la fede, con farla ministra di
tirannia e
tradimento.
15 \ SAUL.\ O Sofia, non è offesa più infame, scelerosa ed indegna di
misericordia, che quella che si fa ad uno per un altro,
per causa che l'uno ha
creduto a l'altro; e l'uno vegna offeso
da l'altro, per avergli porgiuta fede,
16 \ SOFIA\ - Voglio dunque, disse l'altitonante, che
questa virtù compaia
celebrata in cielo, acciò vegna per l'avenire più stimata
in terra. Questa si
veda nel luogo in cui si vedea il Triangolo, da cui
comodamente è stata ed è
significata la Fede; perché il corpo triangulare (come quello che costa di minor
numero di angoli ed è più lontano da l'esser circulare)
è più difficilmente
mobile che qualsivoglia altrimente figurato. Cossì viene purgata la spiaggia
settentrionale, dove comunmente son notate trecento
sessanta stelle: tre
maggiori, diece ed otto grandi, ottanta ed una mediocri,
cento settanta sette
picciole, cinquanta ed otto minori, tredeci minime, con
una nebbiosa e nove
17 \ SAUL.\ Or espediscasi d'apportare
brevemente quel che fu fatto del resto.
18 \ SOFIA\ - Decerni, o padre, disse
Momo, di quel che doviam fare di quel
protoparente de li agnelli; quello che primieramente fa da
la terra uscire le
smorte piante, quello ch'apre l'anno e di
novo florido e frondoso manto
ricoprisce quella ed invaghisce
questo. - Perché dubito, disse Giove, mandarlo
con que' di Calabria, o Puglia, o de la Campania felice,
dove sovente dal rigor
de l'inverno sono uccisi; né mi par convenevole inviarlo
tra gli altri delle
Africane pianure e monti,
dove per il soverchio calore scoppiano; mi par
convenientissimo ch'egli si trove circa
il Tamisi, dove ne veggio tanti belli,
buoni, grassi, bianchi e snelli. E non son smisurati, come nella regione
circa
il Nigero; non negri,
come circa il Silere ed Ofito; non macilenti, come circa
il Sebeto e Sarno; non
cattivi, qual circa il Tevere ed Arno; non brutti a
vedere, come circa il Tago; atteso che
quel luogo quadra alla staggione a cui è
predominante, per esservi, più ch'in
altra parte, oltre e citra l'Equinoziale,
temperato il cielo; ché dalla supposta terra essendo bandito l' eccessivo
rigor
de le nevi e soverchio fervor del sole,
come testifica il perpetuamente verde e
florido terreno, la fa fortunata, come di
continua e perpetua primavera. Giongi
a questo che ivi, compreso dalla protezion de le braccia
dell'ampio Oceano, sarà
sicuro da lupi, leoni ed orsi, ed altri
fieri animali e potestadi nemiche di
terra ferma. E perché questo animale tiene del prencipe,
del duca, del
conduttiero; ha del pastore, del capitano
e guida; come vedete in cielo, dove
tutti li segni di questo cingolo del
firmamento gli correno a dietro; e come
scorgete in terra, dove quando lui si balza
o si precipita, quando diverte o
s'addrizza, quando declina o poggia, viene facilissimamente
tutto l'ovile ad
imitarlo, consentirgli e seguitarlo; voglio ch'in suo luogo succeda la virtuosa
Emulazione, la Exemplarità e buono Consentimento con altre
virtudi sorelle e
ministre; a le quali contrarii sono il Scandalo, il Male
Essempio; che hanno per
ministra la Prevaricazione, la Alienazione,
il Smarrimento; per guida la Malizia
o l'Ignoranza, o l'una e l'altra insieme; per seguace
la stolta Credulitade; la
qual, come vedete, è orba e tenta il camino tastando
col bastone della oscura
inquisizione e pazza persuasione; per compagna perpetua la
Viltade e
Dappocagine; le quali tutte insieme lascino
queste sedie e vadano raminghe per
la terra.
19 - Bene ordinato - risposero li dei tutti. E dimandò
Giunone, che far volesse
di quel suo Tauro, di quel suo bue, di quel consorte del
santo Presepio. Alla
quale rispose: -Se non vuole andar vicino a l'Alpi, alle
rive del Po, dico alla
metropoli del Piamonte,
dove è la deliciosa città di Taurino, denominata da lui,
come da Bucefalo Bucefalia,
dalle capri l' isole che sono al rimpetto
di
Partenope verso l'occidente, Corveto
in Basilicata da' corvi, Mirmidonia da le
formiche, dal Delfino il Delfinato, da
gli cinghiali Aprutio, Ofanto
da'
serpenti, ed Oxonia da non so qual altra
specie; vada per compagno al prossimo
Montone; dove (come testificano le lor
carni che per la commodità dell'erbe
fresche e delicatura de pascoli
vegnono ad essere le più preggiate del mondo) ha
gli più bei consorti che veder si possano nel rimanente
del spacio de
l'universo. - E dimandò Saturno del successore; a cui
rispose così: - Per esser
questo un animal, che dura alle fatiche, pazientemente
laborioso, voglio che sin
ora sia stato tipo della Pazienza, Toleranza, Sufferenza e
Longanimitade,
virtudi in vero molto necessarie al mondo; e quindi seco
si partano (benché non
mi curo che seco vadano o non vadano) l'Ira, l' Indignazione, il Furore, che
sogliono accompagnarsi con questo talvolta stizzoso
animale. Qua vedete uscir
l'Ira figlia, che è parturita da
l'apprension d'Ingiustizia ed Ingiuria; e
partesi dolorosa e vendicativa, perché gli par inconveniente ch'il Dispreggio la
guate e gli percuota le guance.
Come ha gli occhi infocati rivolti a Giove, a
Marte, a Momo, a tutti! Come li va a l'orecchio la
Speranza de la vendetta, che
la consola alquanto e l'affrena, con mostrargli
il favor della Possibilitade
minacciosa contra il Dispetto, la Contumelia ed il Strazio, suoi provocatori! Là
l'Impeto, suo fratello, che gli dona forza, nerbo e
fervore; là la Furia
sorella, che l'accompagna con le tre sue figlie, cioè Excandescenzia, Crudeltade
e Vecordia. O quanto è difficile e
molesto di contemprarla e reprimerla! O
quanto malaggiatamente può esser concotta e digerita da altri dei, che da te,
Saturno; questa, che ha le narici aperte,
la fronte impetuosa, la testa dura,
gli denti mordaci, le labbia velenose, la lingua tagliente, le mani graffiose,
il petto tossicoso, la voce acuta, ed il
color sanguigno. - Qua Marte fece
instanza per l'Ira, dicendo ch'ella alcuna volta, anzi più
de le volte, è
virtude necessariissima, come quella che
favorisce la Legge, dà forza alla
Verità, al Giudicio; ed acuisce
l'Ingegno, ed apre il camino a molte egregie
virtudi, che non capiscono gli animi
tranquilli. A cui Giove: - Che allora, ed
in quel modo con cui è virtù, sussista e
consista tra quelle, a quali si fa
propicia; però mai s'accoste al cielo
senza che gli vada innante il Zelo con la
lanterna de la Raggione.
20 - E che farremo de le sette figlie d'Atlante, o Padre?
-disse Momo. A cui
Giove: - Vadano con le sue sette lampe a
far lume a quel notturno e merinoziale
santo sponsalizio; ed avertiscano d'andar
prima che la porta si chiuda e che
comincie da sopra a destillar il freddo,
il ghiaccio, la bianca neve, atteso che
allora in vano alzaranno le voci e picchiaranno, perché gli sia aperta la porta,
rispondendogli il portinaio
che tiene la chiave: Non vi conosco. Avisatele
che
saran pazze, se faranno venir meno l'oglio
a la lucerna; la qual se fia umida
sempre e non mai secca, averrà che non
sieno tal volte prive di splendor di
degna laude e gloria. Ed in questa region
che lasciano, vegna a metter la sua
stanza la Conversazione, il Consorzio, il Connubio,
la Confraternitade,
Ecclesia, Convitto, Concordia, Convenzione, Confederazione; ed ivi sieno
gionte
a l'Amicizia, perché, dove non è quella, in suo luogo è la
Contaminazione,
Confusione e Disordine. E se non son rette,
non sono esse; perché mai si trovano
in verità (benché il più de le volte in nome) tra
scelerati; ma hanno verità di
Monopolio, Conciliabulo, Setta, Conspirazione, Turba, Congiurazione, o cosa
d'altro nome ed essere detestabile. Non
sono tra irrazionali e quei che non
hanno proponimento di buon fine; non dove è l'ocioso
medesimo credere ed
intendere; ma dove si concorre a medesima azione circa le
cose similmente
intese. Perseverano tra buoni; e son brevi ed inconstanti tra perversi, come tra
quei de quali dissemo in proposito della
Legge e Giudicio, nelli quali non si
trova veramente concordia, come color che non versano
circa virtuose azioni.
21 \ SAUL.\ Quei non sono concordi per
parimente intendere, ma nel parimente
ignorare e malignare e
nel non intendere secondo diverse raggioni. Quelli non
consenteno in parimente oprare a buon
fine, ma in far parimente poco caso di
buone opre e stimar indegni tutti gli atti eroici. Ma
torniamo a noi. Che si fe'
22 \ SOFIA\ Cupido le dimandò per il gran Turco; Febo volea che fussero paggi di
qualche principe italiano; Mercurio, che
fussero cubicularii de la gran camera.
A Saturno parea che servissero per iscaldatoio di qualche vecchio e gran
prelato, o pur a lui, povero decrepito. A
cui Venere disse: - Ma chi, o barba
bianca, le assicura che non gli dii di morso che non li mangi,
se gli tuoi denti
non perdonano a' proprii figli, per gli
quali sei diffamato per parricida
antropofago? - E peggio, disse Mercurio,
che è dubio, che per qualche ritrosa
stizza che l' assale, non gli piante
quella punta di falce su la vita. Lascio
che, se pur a questi può esser donato di rimaner in corte
de gli dei, non sarà
più raggione che toccano a voi, buon padre, che ad altri
molti non meno
reverendi che vi possono aver aperti gli
occhi. - Qua sentenziò Giove, che non
permetteva che in posterum
in corte de gli dei si admettano paggi o altri
servitori che non abbiano molto senno,
discrezione e barba. E che questi si
mettessero alle sorti, mediante le quali
si definisse a chi de gli dei toccasse
di farne provisione per qualche amico in terra. - E mentre
alcuni instavano che
ne determinasse lui, disse che non volea per queste cose gelose generar
suspizion di parzialità ne gli lor animi, quasi inchinando più ad una che ad
un'altra parte di discordanti.
23 \ SAUL.\ Buono ordine, per riparare a
le dissenzioni ch'arrebono possute
accadere per questi!
24 \ SOFIA\ Chiese Venere che in luogo succedesse
l'Amicizia, l'Amore, la Pace,
con gli lor testimoni Contubernio,
Bacio, Imbracciamento, Carezze, Vezzi, e gli
tutti fratelli e servitori, ministri, assistenti e
circonstanti del gemino
Cupido. - La dimanda è giusta, - dissero gli dei tutti.
-Che si faccia, - disse
Giove. Appresso, dovendosi definire del
Granchio (il quale, perché appar
scottato dall'incendio del foco e fatto
rosso dal calor del sole, non si trova
altrimente in cielo che se fusse condannato a le pene de
l'inferno), dimandò
Giunone, come di cosa sua, che ne volesse far il senato;
di cui la più gran
parte lo rimese al suo arbitrio. E lei
disse che, se Nettuno, dio del mare, il
comportava, arrebe desiderato
che s' attuffasse a l'onde del mare Adriatico,
là
dove ha più compagni che non ha stelle in cielo. Oltre,
che sarà appresso
l' onoratissima Republica Veneziana
la qual, come fusse anch'ella un granchio, a
poco a poco da l'oriente sen va verso
l'occidente retrogradando. Consentì quel
Dio che porta il gran tridente. E Giove
disse, che in loco del Cancro starà bene
il tropico della Conversione, Emendazione,
Repressione, Ritrattazione, virtudi
contrarie al Mal progresso. Ostinazione e Pertinacia; e
subito soggionse il
proposito del Leone, dicendo: - Ma questo fiero
animale guardisi di seguitar il
Cancro e di voler là ancora farsegli compagno; perché, se
va a Venezia, trovarà
ivi un altro, più che lui essere possa, forte; percioché
quello non solo sa
combattere in terra, ma oltre guerreggia bene in acqua, e molto meglio in aria,
atteso che ha l'ali, è canonizato, ed è
persona di lettere: però sarà più
espediente per lui di calarsene a gli Libici deserti dove trovarà moglie e
compagni. E mi par che a quella piazza si debba transferir quella Magnanimità,
quella eroica Generositade, che sa perdonar
a' soggetti, compatir a gl'infermi,
domar l'Insolenza, conculcar la Temeritade, rigettar
la Presunzione e debellar
la Suberbia. - Assai bene! - disse Giunone
e la maggior parte del concistoro.
Lascio di riferire con quanto grave, magnifico e bello
apparato e gran comitiva
se ne andasse questa virtude; perché al
presente, per la angustia del tempo,
voglio che vi baste di udire il principale circa la
riforma e disposizione delle
sedie; essendo che sono per informarvi di
tutto il resto quando sedia per sedia
vi condurrò vedendo ed essaminando
queste corti.
25 \ SAUL.\ Bene, o cara Sofia. Molto mi appaga la tua
cortesissima promessa;
però son contento, che con la maggior brevità,
che vi piace, mi doniate saggio
dell'ordine e spaccio dato all'altre sedie e cangiamenti.
26 \ SOFIA\ - Or, che sarà della Vergine? - dimandò la
casta Lucina, la
cacciatrice Diana. - Fategli,
rispose Giove, intendere se la vuole andare ad
esser priora o abbatessa
delle suore o monache, le quali son ne'
conventi o
monasterii de l'Europa; dico, in que'
luoghi dove non son state messe in rotta e
dispersione da la peste; o pur a governar le damigelle de
le corti, a fin che
non le assalte la gola di mangiar li
frutti avanti o fuor de la staggione, o
rendersi compagne de le lor signore. - Oh, disse Dittinna, che non puote; e dice
che non vuole in punto alcuno ritornar onde è una volta
scacciata, e donde è
tante volte fuggita. -Il protoparente suggionse: - Tegnasi dunque ferma in
cielo, e guardisi bene di cascare, e veda di non farsi contaminare in questo
loco. - Disse Momo: - Mi par che la potrà perseverar pura
e netta, si
perseverarà di esser lungi da animali raggionevoli, eroi e dei, e si terrà tra
le bestie, come sin al presente è stata, avendo da la
parte occidentale il
ferocissimo Leone, e dall'oriente il
tossicoso Scorpio. Ma non so come si
portarà adesso, dove gli è prossima la Magnanimitade,
l'Amorevolezza, la
Generositade e Virilitade, che facilmente montandogli
a dosso, per raggion di
domestico contatto facendoli contraere
del magnanimo, amoroso, generoso e
virile, da femina la faranno dovenir
maschio, e da selvaggia ed alpestre dea, e
nume da Satiri, Silvani e Fauni, la convertiranno in nume galante, umano,
affabile ed ospitale. -
Sia quel che deve essere, rispose Giove; ed intra tanto,
gionte a lei nella medesima sedia sieno la Castità, la
Pudicizia, la Continenza,
Purità, Modestia, Verecundia ed Onestade, contrarie alla prostituta Libidine,
effusa Incontinenza, Impudicizia, Sfacciatagine; per le quali intendo la
Verginitade esser una de le virtudi,
atteso che quanto a sé non è cosa di
valore. Perché, quanto a sé, non è virtù né vizio, e non
contiene bontà,
dignità, né merito; e quando non serve alla natura imperante, viene a farsi
delitto, impotenza, pazzia e stoltizia
espressa: e se ottempera a qualche
urgente raggione, si chiama Continenza,
ed ha l'esser di virtù, per quel che
participa di tal fortezza e dispreggio di
voluttadi: il quale non è vano e
frustratorio, ma conferisce
alla conversazione umana ed onesta satisfazione
altrui. - E che farremo de le Bilancie? - disse Mercurio.
- Vadano per tutto,
rispose il primo presidente: vadano per le fameglie, acciò
con esse li padri
veggano dove meglio inchinano gli figli,
se a lettere, se ad armi; se ad
agricoltura, se a religione; se a celibato, se ad amore; atteso che non è bene
che sia impiegato l'asino a volare e ad arare i porci. Discorrano le Academie ed
Universitadi, dove s'essamine se quei che insegnano, son
giusti di peso, se son
troppo leggieri o trabuccanti;
e se quei che presumeno d'insegnar in catedra e
scrittura, hanno necessità d'udire e studiare: e bilanciandoli l'ingegno, si
vegga se quello impenna over impiomba; e se
ha della pecora o pur del pastore; e
se è buono a pascer porci ed asini o pur creature capaci di raggione. Per gli
edificii Vestali vadano a far intendere a
questi ed a quelle, quale e quanto sia
il momento del contrapeso, per violentar
la legge di natura per un'altra sopra-
o estra- o contranaturale,
secondo o fuor d'ogni raggione e debito. Per le
corti, a fin che gli ufficii, gli onori,
le sedie, le grazie ed exenzioni
corrano secondo che ponderano gli meriti e
dignitade di ciascuno; perché non
meritano d'esser presidenti a l'ordine, ed
a gran torto della Fortuna presiedeno
a l'ordine quei che non san reggere
secondo l'ordine. Per le republiche, acciò
ch'il carrico delle administrazioni
contrapesi alla sufficienza e capacità de
gli suggetti; e non si distribuiscano le
cure con bilanciar gli gradi del
sangue, de la nobilitade, de' titoli, de ricchezza: ma de
le virtudi che
parturiscono gli frutti de le imprese; perché presiedano
i giusti,
contribuiscano i facultosi,
insegnino li dotti, guideno gli prudenti, combattano
gli forti, conseglino quei ch'han
giudicio, comandino quei ch'hanno autoritade.
Vadano per gli stati tutti, a fin che negli contratti
di pace, confederazioni e
leghe non si prevariche e decline
dal giusto, onesto ed utile commune,
attendendo alla misura e pondo della fede
propria e de quei con gli quali si
contratta; e nell'imprese ed affari di
guerra si consideri in quale equilibrio
concorrano le proprie forze con quelle
del nemico, quello che è presente e
necessario con quello che è possibile nel futuro, la
facilità del proponere con
la difficultà delle exequire, la comodità
dell'entrare con l' incomodo
dell'uscire, l'inconstanza d'amici con la constanza de
nemici, il piacere
d'offendere con il pensiero di defendersi, il comodo
turbar quel d'altri con il
malaggiato conservare il
suo, il certo dispendio ed iattura del proprio, con
l'incerto acquisto e guadagno de l'altrui. Per tutti gli
particulari vadano,
acciò ognuno contrapesi quel che vuole con quel che sa;
quel che vuole e sa con
quel che puote; quel che vuole, sa e puote con quel che
deve; lo che vuole, sa,
puote e deve con quel che è, fa, ha ed aspetta. - Or, che metteremo dove son le
Bilancie? Che sarà in loco della Libra? - domandò
Pallade. Risposero molti: -La
Equità, il Giusto, la Retribuzione, la raggionevole
Distribuzione, la Grazia, la
Gratitudine, la buona Conscienza, la Recognizion di se
stesso, il Rispetto che
si deve a' maggiori, l' Equanimità che si
deve ad uguali, la Benignità che si
richiede verso gl'inferiori, la Giustizia senza rigore a
riguardo di tutti, che
spingano l'Ingratitudine, la Temeritade,
l'Insolenza, l'Ardire, l'Arroganza, il
poco Rispetto, l'Iniquitade, l'Ingiuria ed altre famigliari di queste. - Bene,
bene! - dissero tutti del concistoro. Dopo la qual voce s' alza in piedi il bel
crinito Apolline, e disse: - È pur gionta
l'ora, o dei, in cui si deve donar
degna ispedizione a questo verme infernale che fu la principal caggione
dell'orribil caso e crudel morte del mio
diletto Fetonte; perché, quando quel
miserello dubbioso e
timido con gli mal noti destrieri guidava del mio eterno
foco il carro, questo pernicioso mostro minaccioso
venne a farsegli talmente
incontro con la punta della sua coda mortale, che per
l'orrendo spavento
facendolo di se stesso fuori, li fe' dalle tenere mani cascar sul tergo de'
cavagli i freni: onde la
tanto signalata ruina del cielo, che ancor nella via
detta lattea appare arso; il sì famoso danno del mondo, che in molte e molte
parti apparve incinerito; e sì fattamente ontoso
scorno contro la mia deitade ne
seguitasse. È pur vergogna che tanto tempo
una simil sporcaria abbia nel cielo
occupato il spacio di doi segni.
27 - Vedi, dunque, o Diana, disse Giove, quel che vuoi far
di questo tuo
animale, il qual vivo è tristo, e morto
non serve a nulla. - Permettetemi (se
cossì piace a voi), disse la vergine dea, che ritorne
a Scio nel monte
Chelippio; dove per mio ordine nacque a
mal grado del presuntuoso Orione, ed ivi
in quella materia di cui fu prodotto, si risolva.
Seco si partano la Fraude, la
Decepzione, l'Inganno, la perniciosa Finzione,
il Dolo, l'Ipocrisia, la Buggia,
il Pergiuro, il Tradimento; e quivi succedano le contrarie virtudi, Sincerità,
Execuzion di promesse, Osservanza di fede,
e le lor sorelle, seguaci e ministre.
Fanne quel che ti piace, disse Momo; perché gli fatti di
costui non ti saran
messi in controversia, come a Saturno il vecchio quegli
de' doi fanciulli. E
veggiamo presto quel che si deve far del figlio Euschemico, che son già tante
migliaia d'anni che con tema di mandarla via senza averne
un'altra, tiene quella
vedova saetta incoccata a l'arco, facendo
la mira là dove si continua la coda
alla spina del dorso di Scorpione. E
certo, se, come lo stimo pur troppo
prattico in prender mira, in collimare,
come dicono, al scopo che è la metà de
l'arte sagittaria, lo potesse ancor
stimare non ignorante in quel rimanente
circa il tirare e dar di punta al bersaglio, che fa l'altra metà de l'esercizio;
donarei conseglio che lo inviassemo
a guadagnarsi un poco di riputazione
nell'isola Britannica, dove sogliono di que' messeri,
altri in giubbarello ed
altri in saio faldeggiante,
celebrar la festa del prencipe Artur e duca di
Sciardichi. Ma dubito che, mancandogli
il verbo principale, per quanto
appartiene a donar dentro al segno, non vegna a far
ingiuria al mistiero. Per
tanto vedete voi altri che ne volete fare; perché (a dir
il vero, come la
intendo) non mi par comodo ad altro che ad essere spaventacchio degli ucelli,
per guardia, verbigrazia, delle fave o de' meloni. - Vada,
disse il Patriarca,
dove vuole; donegli pur alcun di voi il
meglior ricapito che gli pare; e nel suo
luogo sia la figurata Speculazione,
Contemplazione, Studio, Attenzione,
Aspirazione, Appulso ad ottimo fine, con le sue
circonstanze e compagnie.
28 Qua soggionse Momo: - Che vuoi, padre, che si debba
fare di quel santo,
intemerato e venerando Capricorno? di quel
tuo divino e divo connutrizio, di
quel nostro strenuo e più che eroico commilitone
contra il periglioso insulto
della protervia gigantesca? di quel gran consegliero a guerra, che trovò il modo
di examinare quel nemico che da la spelunca del monte Tauro apparve ne l'Egitto
formidando antigonista de
gli dei? di quello il quale (perché apertamente non
arremmo avuto ardire d' assalirlo)
ne dié lezione di trasformarci in bestie, a
fin che l'arte ed astuzia supplisse al
difetto di nostra natura e forze per
parturirci onorato trionfo dell' aversarie posse? Ma, oimè, questo merito non è
senza qualche demerito; perché questo bene
non è senza qualche male aggiunto,
forse perché è prescritto e definito dal fato, che nessun
dolce sia absoluto da
qualche fastidio ed amaro, o per non so qual'altra
caggione. - Or che male,
disse Giove, ne ha egli possuto apportar, che si possa dir
esser stato congionto
a quel tanto bene? che indignità, che abbia possuto
accompagnarsi con tanto
trionfo? - Rispose Momo: - Fece egli con questo, che gli
Egizii venessero ad
onorar le imagini vive de le bestie, e ne adorassero
in forma di quelle; onde
venemo ad esser beffati, come ti dirò. - E
questo, o Momo, disse Giove, non
averlo per male, perché sai, che gli animali e piante son
vivi effetti di
natura; la qual natura (come devi sapere) non è altro che
dio nelle cose.
29 \ SAUL.\ Dunque, natura est deus in rebus.
30 \ SOFIA\ - Però, disse, diverse cose vive rapresentano
diversi numi e diverse
potestadi; che oltre l'essere absoluto che hanno,
ottegnono l'essere comunicato
a tutte le cose secondo la sua capacità e misura. Onde Idio tutto (benché non
totalmente ma in altre più e meno
eccellentemente) è in tutte le cose. Però
Marte si trova più efficacemente in natural vestigio e
modo di sustanza non solo
in una vipera e scorpione, ma ed in una cipolla
ed aglio, che in qualsivoglia
maniera di pittura o statua inanimata.
Cossì pensa del Sole nel croco, nel
narciso, nell' elitropio,
nel gallo, nel leone; cossì pensar devi di ciascuno de
gli dei per ciascuna de le specie sotto diversi geni de lo
ente, perché sicome
la divinità descende in certo modo per quanto che si
comunica alla natura, cossì
alla divinità s'ascende per la natura, cossì per la vita rilucente nelle cose
naturali si monta alla vita che soprasiede a quelle. - È
vero quel che dici,
rispose Momo: perché in fatto vedo, come que' sapienti con
questi mezzi erano
potenti a farsi familiari, affabili
e domestici gli dei che per voci, che
mandavano da le statue, gli donavano
consegli, dottrine, divinazioni ed
instituzioni sopraumane; onde con magici e divini riti per la medesima scala di
natura salevano a l'alto della divinità,
per la quale la divinità descende sino
alle cose minime per la comunicazione di se stessa. Ma
quel che mi par da
deplorare, è che veggio alcuni insensati e
stolti idolatri, li quali, non più
che l'ombra s'avicina alla nobilità del corpo, imitano l'eccellenza del culto de
l'Egitto; e che cercano la divinità, di cui non hanno
raggione alcuna, ne gli
escrementi di cose morte ed inanimate;
che con tutto ciò si beffano non
solamente di quei divini ed oculati
cultori, ma anco di noi, come di color che
siamo riputati bestie; e quel che è peggio,
con questo trionfano, vedendo gli
lor pazzi riti in tanta riputazione, e quelli de gli altri
a fatto svaniti e
cassi. - Non ti dia fastidio questo, o Momo, disse Iside,
perché il fato ha
ordinata la vicissitudine delle tenebre e la luce. - Ma il
male è, rispose Momo,
che essi tegnono per certo di essere nella luce. - Ed
Iside soggionse, che le
tenebre non gli sarrebono tenebre, se da essi fussero
conosciute. Quelli dunque,
per impetrar certi beneficii e doni da gli dei, con
raggione di profonda magia
passavano per mezzo di certe cose
naturali, nelle quali in cotal modo era
latente la divinitade, e per le quali essa potea e volea a
tali effetti
comunicarsi. Là onde que' ceremoni non erano vane
fantasie, ma vive voci che
toccavano le proprie orecchie de gli Dei; li quali, come
da lor vogliano essere
intesi non per voci d'idioma che lor sappiano
fengere, ma per voci di naturali
effetti, talmente per atti di ceremoni circa quelle volsero studiare di essere
intesi da noi: altrimente cossì fussemo stati sordi
a gli voti, come un Tartaro
al sermone greco che giamai udìo.
Conoscevano que' savii dio essere nelle cose,
e la divinità, latente nella natura, oprandosi
e scintillando diversamente in
diversi suggetti, e per diverse forme fisiche,
con certi ordini, venir a far
partecipi di sé, dico de l'essere, della vita ed
intelletto; e però con gli
medesimamente diversi ordini si disponevano
alla recepzion de tanti e tai doni,
quali e quanti bramavano. Quindi per la
vittoria libavano a Giove magnanimo
nell'aquila, dove, secondo tale attributo,
è ascosa la divinità; per la prudenza
nelle operazioni a Giove sagace libavano nel serpente;
contra la prodizione a
Giove minace nel crocodillo; cossì per
altri innumerabili fini libavano in altre
specie innumerabili. Il che tutto non si faceva senza magica ed efficacissima
raggione.
31 \ SAUL.\ Come dite cossì, o Sofia, se Giove non era
nomato in tempo di egizii
culti, ma si trovò molto tempo dopo, appresso gli Greci?
32 \ SOFIA\ Non aver pensiero del nome greco, o Saulino;
perché io parlo secondo
la consuetudine più universale, e perché gli nomi (anco
appresso gli Greci) sono
apposticci alla divinità: atteso che tutti sanno bene che
Giove fu un re di
Creta, uomo mortale, e di cui il corpo, non meno che quel
di tutti gli altri
uomini, è putrefatto o incinerito. Non è
occolto qualmente Venere sia stata una
donna mortale, la qual fu regina deliciosissima,
e sopra modo bella, graziosa e
liberale in Ciprio. Similmente intendi de
tutti gli altri dei che son conosciuti
per uomini.
33 \ SAUL.\ Come, dunque, le adoravano ed invocavano?.
34 \ SOFIA\ Ti dirò. Non adoravano Giove, come lui fusse
la divinità, ma
adoravano la divinità, come fusse in Giove; perché vedendo
un uomo in cui era
eccellente la maestà, la giustizia, la magnanimità, intendevano in lui esser dio
magnanimo, giusto e benigno; ed ordinavano
e mettevano in consuetudine che tal
dio, o pur la divinità, in quanto che in tal maniera si
comunicava, fusse
nominata Giove; come sotto il nome di Mercurio Egizio
sapientissimo fusse
nominata la divina sapienza, interpretazione e manifestazione. Di maniera che di
questo e quell'uomo non viene celebrato altro che il nome
e representazion della
divinità, che con la natività di quelli
era venuta a comunicarsi a gli uomini, e
con la morte loro s' intendeva aver compìto il corso de l'opra sua, o ritornata
in cielo.
35 Cossì li numi eterni (senza ponere
inconveniente alcuno contra quel che è
vero della sustanza divina) hanno nomi temporali
altri ed altri in altri tempi
ed altre nazioni: come possete vedere per manifeste
istorie, che Paulo Tarsense
fu nomato Mercurio, e Barnaba Galileo
fu nomato Giove, non perché fussero
creduti essere que' medesimi dei; ma perché stimavano che
quella virtù divina
che si trovò in Mercurio e Giove in altri tempi, all'ora
presente si trovasse in
questi, per l' eloquenza e persuasione
ch'era nell'uno, e per gli utili effetti
che procedevano da l'altro.
36 Ecco dunque come mai furono adorati crocodilli, galli,
cipolle e rape; ma gli
Dei e la divinità in crocodilli, galli ed altri; la quale
in certi tempi e
tempi, luoghi e luoghi, successivamente ed insieme
insieme, si trovò, si trova e
si trovarà in diversi suggetti quantunque siano mortali:
avendo riguardo alla
divinità, secondo che ne è prossima e familiare, non
secondo è altissima,
absoluta in se stessa, e senza abitudine alle cose
prodotte. Vedi dunque come
una semplice divinità che si trova in tutte le cose, una
feconda natura, madre
conservatrice de l'universo, secondo che
diversamente si comunica, riluce in
diversi soggetti, e prende diversi nomi. Vedi come a
quell'una diversamente
bisogna ascendere per la participazione de
diversi doni; altrimente in vano si
tenta comprendere l'acqua con le reti e pescar
i pesci con la pala. Indi ne gli
doi corpi che vicino a questo globo e nume nostro materno
son più principali,
cioè nel sole e luna, intendeano la vita
che informa le cose secondo due
raggioni più principali. Appresso apprendeano
quella secondo sette altre
raggioni, distribuendola a sette lumi
chiamati erranti; a gli quali, come ad
original principio e feconda causa, riduceano le differenze delle specie in
qualsivoglia geno: dicendo de le piante, de li animali, de
le pietre, de
gl'influssi, e di altre ed altre cose, queste di Saturno,
queste di Giove,
queste di Marte, queste e quelle di questo e di
quell'altro. Cossì de le parti,
de' membri, de' colori, de' sigilli, de' caratteri, di segni, de imagini
destribuite in sette specie. Ma non manca
per questo, che quelli non
intendessero una essere la divinità che si
trova in tutte le cose, la quale,
come in modi innumerabili si diffonde e communica, cossì
ave nomi innumerabili,
e per vie innumerabili, con raggioni proprie ed appropriate a ciascuno, si
ricerca, mentre con riti innumerabili si onora
e cole, perché innumerabili geni
di grazia cercamo impetrar da quella. Però
in questo bisogna quella sapienza e
giudizio, quella arte, industria ed uso di lume
intellettuale, che dal sole
intelligibile a certi tempi più ed a certi tempi meno,
quando massima- e quando
minimamente viene revelato al mondo. Il
quale abito si chiama Magia: e questa,
per quanto versa in principii sopranaturali, è divina; e
quanto che versa circa
la contemplazion della natura e perscrutazion
di suoi secreti, è naturale; ed è
detta mezzana e matematica,
in quanto che consiste circa le raggioni ed atti de
l'anima, che è nell'orizonte del corporale e spirituale,
spirituale ed
intellettuale.
37 Or, per tornare al proposito donde siamo dipartiti,
disse Iside a Momo, che
gli stupidi ed insensati idolatri non aveano raggione di
ridersi del magico e
divino culto degli Egizii; li quali in tutte le cose ed in
tutti gli effetti,
secondo le proprie raggioni di ciascuno, contemplavano
la divinità; e sapeano
per mezzo delle specie che sono nel grembo della natura,
ricevere que' beneficii
che desideravano da quella; la quale come
dal mare e fiumi dona i pesci, da gli
deserti gli salvatici animali, da le miniere
gli metalli, da gli arbori le poma;
cossì da certe parti, da certi animali, da certe bestie,
da certe piante porgono
certe sorti, virtudi, fortune ed impressioni. Però la
divinitade nel mare fu
chiamata Nettuno, nel sole Apolline, nella terra Cerere,
ne gli deserti Diana; e
diversamente in ciascuna de le altre specie, le quali,
come diverse idee, erano
diversi numi nella natura, li quali tutti si referivano
ad un nume de' numi e
fonte de le idee sopra la natura.
38 \ SAUL.\ Da questo parmi che derive quella Cabala de
gli Ebrei, la cui
sapienza (qualunque la sia in suo geno) è proceduta
da gli Egizii appresso de
quali fu instrutto Mosè. Quella
primieramente al primo principio attribuisce un
nome ineffabile, da cui secondariamente
procedeno quattro, che appresso si
risolveno in dodici; i quali migrano
per retto in settantadoi, e per obliquo e
retto in cento quarantaquattro; e cossì
oltre, per quaternarii e duodenarii
esplicati, in innumerabili, secondo che
innumerabili sono le specie. E talmente,
secondo ciascun nome (per quanto vien commodo al proprio
idioma), nominano un
dio, un angelo, una intelligenza, una
potestà, la quale è presidente ad una
specie; onde al fine si trova che tutta la deità si riduce ad un fonte, come
tutta la luce al primo e per sé lucido, e le imagini che
sono in diversi e
numerosi specchi, come in tanti suggetti
particulari, ad un principio formale ed
ideale, fonte di quelle.
39 \ SOFIA\ Cossì è. Talmente dunque quel dio, come
absoluto, non ha che far con
noi; ma per quanto si comunica alli effetti della natura,
ed è più intimo a
quelli che la natura istessa; di maniera che se lui non è
la natura istessa,
certo è la natura de la natura; ed è l'anima de l'anima
del mondo, se non è
l'anima istessa: però, secondo le raggioni speciali
che voleano accomodarsi a
ricevere l'aggiuto di quello, per la via delle ordinate
specie doveano
presentarsegli avanti: come chi vuole il
pane, va al fornaio; chi vuole il vino,
al cellaraio; chi appete
gli frutti, va al giardiniero; chi dottrina, al mastro;
e cossì va discorrendo per tutte l'altre cose: in tanto
che una bontà, una
felicità, un principio absoluto de tutte ricchezze e beni,
contratto a diverse
raggioni, effonde gli doni secondo l' exigenze
de particulari.
40 Da qua puoi inferire, come la sapienza de gli Egizii,
la quale è persa,
adorava gli crocodilli, le lacerte,
li serpenti, le cipolle; non solamente la
terra, la luna, il sole ed altri astri del cielo; il qual
magico e divino rito
(per cui tanto comodamente la divinità si comunicava a gli
uomini) viene
deplorato dal Trimegisto,
dove, raggionando ad Asclepio, disse: - Vedi, o
Asclepio, queste statue animate, piene di senso e di
spirito, che fanno tali e
tante degne operazioni? Queste statue, dico, prognostricatrici
di cose future,
che inducono le infirmitadi, le cure, le allegrezze e le tristizie, secondo gli
meriti ne gli affetti e corpi umani? Non sai, o Asclepio,
come l'Egitto sia la
imagine del cielo, e per dir meglio, la colonia de tutte
cose che si governano
ed esercitano nel cielo? A dir il vero, la
nostra terra è tempio del mondo. Ma,
oimè, tempo verrà che apparirà l'Egitto in
vano essere stato religioso cultore
della divinitade; perché la divinità, remigrando
al cielo, lasciarà l'Egitto
deserto; e questa sedia de divinità rimarrà
vedova da ogni religione, per essere
abandonata dalla presenza de gli dei,
perché vi succederà gente straniera e
barbara senza religione, pietà, legge e culto alcuno. O
Egitto, Egitto, delle
religioni tue solamente rimarranno le favole, anco incredibili alle generazioni
future, alle quali non sarà altro, che narri
gli pii tuoi gesti, che le lettere
sculpite nelle pietre, le quali narraranno non a dei ed uomini (perché questi
saranno morti, e la deitade sarà trasmigrata
in cielo), ma a Sciti ed Indiani, o
altri simili di salvaggia natura. Le tenebre si preponeranno alla luce, la morte
sarà giudicata più utile che la vita, nessuno alzarà
gli occhi al cielo, il
religioso sarà stimato insano, l' empio
sarà giudicato prudente, il furioso
forte, il pessimo buono. E credetemi che ancora sarà definita pena capitale a
colui che s' applicarà alla religion della
mente; perché si trovaranno nove
giustizie, nuove leggi, nulla si trovarà di santo, nulla
di relligioso: non si
udirà cosa degna di cielo o di celesti.
Soli angeli perniciosi rimarranno, li
quali meschiati con gli uomini forzaranno gli miseri all'audacia di ogni male,
come fusse giustizia; donando materia a guerre, rapine, frodi e tutte altre cose
contrarie alla anima e giustizia naturale: e questa sarà
la vecchiaia ed il
disordine e la irreligione del mondo. Ma
non dubitare, Asclepio, perché, dopo
che saranno accadute queste cose, allora il signore e
padre Dio, governator del
mondo, l'omnipotente proveditore, per diluvio d'acqua o di
fuoco, di morbi o di
pestilenze, o altri ministri della sua
giustizia misericordiosa, senza dubbio
donarà fine a cotal macchia, richiamando
il mondo all'antico volto.
41 \ SAUL.\ Or tornate al proposito che
tenne Iside con Momo.
42 \ SOFIA\ Or, al proposito di calumniatori
del culto egizio, li recitò quel
verso del poeta:
Loripedem rectus derideat, Aethiopem albus.
Le insensate bestie e veri bruti si ridono de noi dei, come adorati in bestie e
piante e pietre, e de gli miei Egizii che in questo modo
ne riconoscevano; e non
considerano che la divinità si mostra in
tutte le cose; benché per fine
universale ed eccellentissimo in cose
grandi e principii generali; e per fini
prossimi, comodi e necessarii a diversi
atti della vita umana, si trova e vede
in cose dette abiettissime, benché ogni cosa, per quel che
è detto, ha la
divinità latente in sé; perché la si esplica e comunica
insino alli minimi e
dalli minimi secondo la lor capacità; senza la qual
presenza niente arrebe
l'essere, perché quella è l'essenza de l'essere del primo
sin all'ultimo. A quel
che è detto, aggiongo, e dimando: Per qual raggione riprendeno gli Egipzii in
quello nel che essi ancora son compresi? E per venire a
coloro che da noi o
fuggirono, o fûrno come leprosi scacciati a gli deserti, non sono essi,
nelle
loro necessitati, ricorsi
al culto egizio, quando ad un bisogno mi adorarono
nell'idolo d'un vitello d'oro; e ad
un'altra necessità, s' inchinorno, piegâro le
ginocchia ed alzâro le mani a Theuth
in forma del serpente di bronzo, benché per
loro innata ingratitudine, dopo impetrato favore dell'uno e l'altro nume,
ruppero l'uno e l'altro idolo? Appresso, quando si hanno
voluto onorare con
dirsi santi, divini e benedetti, in che
maniera han possuto farlo eccetto con
intitularsi bestie, come si vede dove il
padre de dodici tribù, per testamento
donando a' figli la sua benedizione, le magnificò con nome di dodici bestie?
Quante volte chiamano il lor vecchio dio risvegliato
Leone, Aquila volante,
Fuoco ardente, Procella risonante,
Tempesta valorosa; ed il novamente conosciuto
da gli altri lor successori Pellicano
insanguinato, Passare solitario, Agnello
ucciso. E cossì lo chiamano, cossì lo pingono, cossì l'intendeno,
dove lo veggio
in statua e pittura con un libro, non so se posso dire, in
mano, che non può
altro che lui aprirlo e leggerlo.
Oltre, tutti quei che son per credergli
deificati, non son chiamati da lui, e si
chiamano essi ancor gloriandosi, pecore
sue, sua pastura, sua mandra, suo ovile,
suo gregge? Lascio che gli medesimi
veggio significati per gli asini: per la
femina madre, il popolo giudaico; e
l'altre generazioni che se gli doveano aggiongere, prestandogli fede, per il
polledro figlio. Vedete, dunque, come
questi divi, questo geno eletto vien
significato per sì povere e basse bestie;
e poi si burlano di noi che siamo
presentati in più forti, degne ed imperiose altre?
43 Lascio che tutte le generazioni illustri ed egregie
mentre per gli lor segni
ed imprese vogliono mostrarsi ed essere significate, ecco
le vedi aquile,
falconi, nibbii, cuculi, civette, nottue, buboni, orsi, lupi, serpi, cavalli,
buovi, becchi; e tal volta, perché manco
si stimano degni de farsi una bestia
intiera, ecco vi presentano un pezzo di quella, o una gamba, o una testa, o un
paio di corna, o una coda, o un nerbo. E non pensate che,
se si potessero
trasformare in sustanza di tali animali,
non lo farrebono volentiera; atteso, a
qual fine stimate che pingono nel suo scudo le bestie
quando le accompagnano col
suo ritratto, con la sua statua? Pensate forse che
vogliono dire altro eccetto:
Questo, questo, di cui, o spettatore, vedi
il ritratto, è quella bestia, che gli
sta vicina e compiuta; overo:
Se volete saper chi è questa bestia, sappiate che
la è costui di cui vedete qua il ritratto e qua scritto il
nome. Quanti sono,
che per meglior parere bestie, s' impellicciano
di lupo, di volpe, di tasso, di
caprone, di becco, onde, ad essere uno di
cotai animali, non par che gli manca
altro che la coda? Quanti sono che per mostrar quanto
hanno dell'ucello, del
volatile e far conoscere con quanta
leggerezza si potrebono sullevare alle nubi,
s' impiumano il cappello e
la barretta?
44 \ SAUL.\ Che dirai de le dame nobili,
tanto de le grandi, quanto di quelle
che voglion far del grande? non fanno elle più gran caso delle bestie che de
proprii figli? Eccole, quasi dicessero: -
O figlio mio, fatto a mia imagine: se
come ti mostri uomo, cossì ti mostrassi coniglio, cagnolina, martora, gatto,
gibellino; certo, si come ti ho commesso a
le braccia de la serva, de la fante,
de questa ignobile nutriccia, di questa sugliarda,
sporca, imbreaca, che
facilmente, infettandoti di lezzo,
ti farà morire; perché conviene anco che
dormi con ella; io, io sarei quella che
medesima ti portarei in braccio, ti
sostenerei, lattarei, pettinarei, ti cantarei, ti farei
di vezzi, ti baciarei,
come fo a quest'altro gentile animale, il qual non voglio
che si domestiche con
altro che con me; non permetterò che sia
tocco da altro che da me; e non
lasciarò star in altra camera e dormir in
altro letto che nel mio. Questo se
averrà che la cruda Atropo mi tolga, non patirò che vegna sepolto come tu, ma
gl' imbalsimarò, gli perfumarò
la pelle; ed a quella, come a divina reliquia,
dove mancano li membri de la fragil testa
e piedi, io vi formarò la figura in
oro smaltato ed asperso di diamanti, di perle e di rubini. Cossì, dove bisognarà
onoratamente comparire, il portarò
meco, ora avolgendomelo al collo, ora me
l' accostando al volto, a la bocca, al
naso; ora me l' appoggiarò al braccio; ora,
dismettendo il braccio perpendicolarmente
in giù, lo lasciarò ir prolungato
verso le falde, a fin che non sia parte di
quello che non sia messa in
prospettiva. - Onde aperto si vede, quanto con più sedula cura queste più
generose donne sono affette circa una bestia che verso un
proprio figlio, per
far vedere quanta sia la nobilità di quelle sopra questi,
quanto quelle sono più
45 \ SOFIA\ E per tornare a più seriose raggioni, quelli
che sono, o si tegnono
più gran prencipi, per far con espressi segni evidente
la loro potestà e divina
preeminenza sopra gli altri, s'adattano in testa la
corona; la quale non è altro
che figura di tante corna, che in cerchio gl' incoronano,
id est gl' incornano il
capo. E quelle quanto son più alte ed eminenti, tanto
fanno più maestrale
representazione, e son segno di maggior grandezza: onde è geloso un duca che un
conte o marchese mostre
una corona cossì grande come lui; maggiore conviene al
re, massima a l'imperatore, triplicata
tocca al papa, come a quello sommo
patriarca che ne deve aver per lui e per li compagni. Li pontefici ancora sempre
hanno adoperata la mitra acuminata in due
corna; il duce di Venezia compare con
un corno a mezza testa; il gran Turco da fuor del turbante lo fa uscir alto e
diritto in forma rotonda piramidale:
il che tutto è fatto per donar testimonio
della sua grandezza, con accomodarsi con la meglior arte
questa bella parte in
testa, la quale alle bestie ha conceduta la natura: voglio
dir, con mostrar di
aver de la bestia. Questo nessuno avanti, né alcuno da poi
ha possuto più
efficacemente esprimere, che il duca e legislatore del popolo giudeo. Quel Mosè
dico, che in tutte le scienze de gli Egizii usci
addottorato da la corte di
Faraone; quello che nella moltitudine di
segni vinse tutti que' periti nella
maggia; in che modo mostrò l'eccellenza
sua, per esser divino legato a quel
popolo, e representator de l'autorità del
dio d'Ebrei? vi par che, calando giù
del monte Sina con le gran tavole, venesse
in forma d'un uomo puro, essendo che
si presentò venerando con un paio di gran
corna, che su la fronte gli
ramificavano? Avanti la cui maestral
presenza mancando il cuore di quel popolo
errante ch'il mirava, bisognò che con un
velo si cuoprisse il volto; il che pure
fu fatto da lui per dignità e per non far troppo familiare
quel divino e più che
umano aspetto.
45 \ SAUL.\ Cossì odo ch'il gran Turco, quando non porge
familiare udienza, usa
il velo avanti la sua persona. Cossì ho visto io gli
Religiosi di Castello in
Genova mostrar per breve tempo e far baciar
la velata coda, dicendo: - Non
toccate, baciate; questa è
la santa reliquia di quella benedetta asina, che fu
fatta degna di portar il nostro Dio dal
monte Oliveto a Jerosolima. Adoratela,
baciatela, porgete limosina: Centuplum accipietis,
et vitam aeternam
46 \ SOFIA\ Lasciamo questo, e venemo al nostro proposito.
Per la legge e
decreto di quella nazion eletta
nessuno si fa re se non con dargli de l'oglio
con un corno in testa; e dal sacrato corno è ordine che
esca quel regio liquore,
perché appaia quanta sia la dignità de le corna, le quali conservano, effondeno
e parturiscono la regia maestade. Or se un pezzo, una
reliquia d'una bestia
morta è in tanta riputazione, che devi pensar d'una bestia
viva e tutta intiera,
che non ha le corna improntate, ma per
eterno beneficio di natura? Séguito il
proposito secondo la mosaica autoritade,
la quale nella legge e scrittura sempre
non usa altre minacce che questa, o simili
a questa: Ecco, popolo, mio, che dice
il nostro Giova. Spuntarò il vostro corno,
o transgressori di miei precetti, o
prevaricatori della mia legge, fiaccarò, dileguarò le vostre corna. Ribaldi e
scelerati, vi scornarò ben io. Cossì per
l'ordinario non usa altre promesse che
questa, o simili a questa: Te incornarò
certo; per mia fede, per me stesso ti
giuro che ti adaptarò le
corna, popolo mio eletto. Popolo mio fedele, abbi per
fermo che non arranno male le tue corna;
di quelle non si scemarà nulla.
Generazione santa, figli benedetti, inalzarò,
magnificarò, sublimarò le corna
vostre, perché denno essere exaltate le
corna de' giusti. Da onde appare aperto,
che ne le corna consiste il splendor, l'eccellenza e
potestade, perché son cose
da eroi, bestie e dei.
47 \ SAUL.\ Onde aviene che è messo in consuetudine di
chiamar cornuto uno, per
dirlo uomo senza riputazione, o che abbia perso qualche riputata specie di
onore?
48 \ SOFIA\ Onde aviene che alcuni ignoranti porcini alle
volte ti chiamano
filosofo (quale, se è vero, è più onorato titolo che possa
aver un uomo), e te
lo dicono come per dirti ingiuria o per vituperarti?
49 \ SAUL.\ Da certa invidia.
50 \ SOFIA\ Onde aviene che alcun pazzo e stolto tal volta
da te vien chiamato
filosofo?
51 \ SAUL.\ Da certa ironia.
52 \ SOFIA\ Cossì poi intendere che, o per certa invidia o
per certa ironia,
aviene che quei che sono, o che non sono onorati e
magnifici, vegnono nomati
cornuti. Conchiuse dunque Iside per il Capricorno, che,
per aver egli le corna e
per esser egli una bestia, ed oltre aver fatti dovenir gli
dei cornuti e bestie
(il che contiene in sé gran dottrina e giudicio di cose
naturali e magiche circa
le diverse raggioni con le quali la forma e sustanza
divina o s'immerge, o si
explica, o si condona per tutti, con tutti
e da tutti suggetti), è un dio non
solamente celeste, ma, ed oltre, degno di maggiore e
meglior piazza che non è
questa. E per quello che gli più vili idolatri, anzi gli
vilissimi de la Grecia
e de l'altre parti del mondo, improperano
a gli Egizii, risponde per quel che è
detto, che se pur si commette indignità
nel culto, il quale è necessario in
qualche maniera; e se peccano quei che per molte commoditadi e necessitadi, in
forme de vive bestie, vive piante, vivi astri, ed inspiritate statue di pietre e
di metallo (nelle quali non possiamo dir che non sia
quello che è più intimo a
tutte le cose, che la propria forma di esse), adororno
la deità una e semplice
ed absoluta in se stessa, multiforme ed omniforme in tutte le cose; quanto
incomparabilmente peggiore è quel culto, e più vilmente peccano quei che senza
commodità e necessità alcuna, anzi fuor d'ogni raggione e
dignità, sotto abiti e
titoli ed insegne divine adorano le bestie
e peggiori che bestie?
53 Gli Egizii, come sanno i sapienti, da queste forme
naturali esteriori di
bestie e piante vive ascendevano e (come
mostrano gli lor successi) penetravano
alla divinità; ma loro da gli abbiti
magnifici esterni de gli lor idoli (ad
altri accomodandogli al capo gli dorati raggi apollineschi, ad
altri la grazia
di Cerere, ad altri la purità di Diana, ad altri l'aquila,
ad altri il scettro e
folgore di Giove in mano) descendeno poi
ad adorar in sustanza per dei quei che
a pena hanno tanto spirito quanto le nostre bestie; perché
finalmente la loro
adorazione si termina ad
uomini mortali, dappoco, infami, stolti, vituperosi,
fanatici, disonorati, infortunati, inspirati da genii perversi, senza
ingegno,
senza facundia e senza virtude alcuna; i
quali vivi non valsero per sé, e non è
possibile che morti vagliano per sé o per altro. E benché
per lor mezzo è tanto
instercorata ed insporcata la dignità del
geno umano, che in loco di scienze è
imbibito de ignoranze più che bestiali,
onde è ridotto ad esser governato senza
vere giustizie civili, tutto è avenuto non per prudenza loro, ma perché il fato
dona il suo tempo e vicissitudine a le tenebre. E
soggionse queste paroli,
voltata a Giove: - E mi dolgo
di voi, o padre, per molte bestie, che, per esser
bestie, mi par che facci indegne del cielo, essendo però,
come ho mostrato,
tanta la dignità di quelle. - A cui il summitonante: - Te
inganni, figlia, che
per esser bestie. Se gli altri dei sdegnassero
l'esser bestie, non sarrebono
accadute tante e tali metamorfosi. Però non possendo, né dovendovi rimanere in
ipostatica sustanza, voglio che vi rimagnano in ritratto,
il qual sia
significativo, indice e figura de le
virtudi che in que' luoghi si stabiliscono.
E quantunque alcune hanno espressa significazione
di vizio, per essere animali
atti alla vendetta contra la specie umana, non sono però
senza virtù divina in
altro modo favorevolissime a quella
medesima ed altre, perché nulla è
absolutamente, ma, per certo rispetto, malo, come l'Orsa,
il Scorpione ed altri:
questo non voglio che ripugne al
proposito, ma lo comporte nel modo che hai
possuto aver visto e vedrai. Però non curo che la Verità
sia sotto figura e nome
de l'Orsa, la Magnanimità sotto quel de l'Aquila, la
Filantropia sotto quel del
Delfino, e cossì de gli altri. E per venire alla proposta
del tuo Capricorno, tu
sai quel ch'ho detto da principio, quando feci l' enumerazione di quei che
doveano lasciar il cielo; e credo che ti ricordi
lui essere uno de gli
riservati. Godasi dunque la sua sedia,
tanto per le raggioni da te apportate,
quanto per altre molte non minori, che apportar si
potrebono. E con lui, per
degni rispetti, soggiorne la Libertà di
spirito a cui talvolta amministra il
Monachismo (non dico quello de cocchiaroni), l'Eremo, la Solitudine, che
sogliono parturir quel divino sigillo ch'è
la buona Contrazione.
54 Appresso dimandò Teti di quel che volea far de
l'Aquario. -Vada, rispose
Giove, a trovar gli uomini, e sciôrgli
quella questione del diluvio, e
dechiarare come quello ha possuto essere
generale, perché s'apersero tutte le
cataratte del cielo; e faccia che non si creda oltre
quello esser stato
particolare, perché è impossibile che l'acqua del mare e
fiumi possa gli ambi
doi emisferi ricuoprire,
anzi né pur un medesimo citra ed oltre i Tropici o
l'Equinoziale. Appresso faccia intendere come questa riparazion del geno
traghiuttito da l'onde fu da l'Olimpo
nostro de la Grecia, e non da gli monti di
Armenia, o dal Mongibello di Sicilia, o da
qualch'altra parte. Oltre che le
generazioni de gli uomini si trovano in diversi continenti
non a modo con cui si
trovano tante altre specie d'animali usciti
dal materno grembo de la natura, ma
per forza di transfretazione e virtù di navigazione, perché, verbigrazia, son
stati condotti da quelle navi
che furono avanti che si trovasse la prima; perché
(lascio altre maladette raggioni da canto,
quanto a gli Greci, Druidi e tavole
di Mercurio, che contano più di vinti mila
anni non dico de lunari, come dicono
certi magri glosatori, ma
di que' rotondi simili a l' annello, che si computano
da un inverno a l'altro, da una primavera a l'altra, da
uno autunno a l'altro,
da una staggione a l'altra medesima) è frescamente
scuoperta una nuova parte de
la Terra che chiamano Nuovo Mondo, dove hanno memoriali
di diece mila anni e
più, gli quali sono, come vi dico, integri
e rotondi, perché gli loro quattro
mesi son le quattro staggioni, e perché, quando gli anni
eran divisi in più
pochi, erano anco divisi in più grandi mesi. Ma lui, per
evitar gl'inconvenienti
che possete da per voi medesimi considerare, vada
destramente a mantenir questa
credenza, trovando qualche bel modo di accomodar quelli anni; e quello che non
può glosare ed iscusare, audacemente
nieghi, dicendo che si deve porgere più
fede a gli dei (de quali portarà le lettere patente
e bolle) che a gli uomini,
li quali tutti son buggiardi. - Qua aggionse
Momo dicendo: - E 'l mi par meglio
di scusarla in questa maniera con dire,
verbigrazia, che questi de la terra nova
non son parte de la umana generazione, perché non sono
uomini, benché in membra,
figura e cervello siano molto simili a essi; ed in molte
circonstanze si
mostrano più savii ed in trattar gli lor dei manco
ignoranti. - Rispose Mercurio
che questa era troppo dura a digerire. - Mi par che quanto
appartiene alle
memorie di tempi, si può facilmente
provedere con far maggiori questi, o minori
quelli anni; ma penso che sia conveniente trovar alcuna
gentil raggione, per
qualche soffio di vento, o per qualche trasporto di balene ch'abbiano
inghiuttite persone di un paese, e quelle
vive andate a vomire in altre parti ed
altri continenti. Altrimente noi dei greci saremo confusi;
perché si dirà che
tu, Giove, per mezzo di Deucalione non sei riparator
de gli uomini tutti, ma di
certa parte solamente. - Di questo e del modo di provedere
si parlarà a più
bell' agio, - disse Giove. Aggiunse alla
commissione di costui, che debba egli
definire circa la controversia se lui è stato sin ora in
cielo per un padre di
Greci, o di Ebrei, o di Egizii o di altri, e se ha nome
Deucalione, o Noemo, o
Otrio, o Osiri. Finalmente
determine se lui è quel patriarca Noè, che, imbreaco
per l'amor di vino, mostrava il principio organico della lor generazione a'
figli, per fargli intendere insieme insieme dove consistea il principio
ristorativo di quella generazione assorbita ed abissata da l'onde del gran
cataclismo, quando doi uomini maschii
ritrogradando gittâro gli panni
sopra il
discuoperto seno del padre; o pur è quel tessalo
Deucalione, a cui, insieme con
Pirra sua consorte, fu mostrato ne le
pietre il principio della umana
riparazione; là onde de doi uomini, un maschio e una
femina, retrogradando le
gittavano a dietrovia al
discuoperto seno della terra madre? Ed insegne di
questi doi modi de dire (perché non possono esser l'uno e
l'altro istoria) qual
sia la favola e qual sia la istoria; e se sono ambi doi
favole, qual sia la
madre e quale sia la figlia; e veda se potrà ridurle
a metafora di qualche
veritade degna d'essere occolta. Ma non inferisca che la
sufficienza della magia
caldaica sia uscita e
derive da la cabala giudaica; perché gli Ebrei son
convitti per escremento de l'Egitto, e mai
è chi abbia possuto fingere con
qualche verisimilitudine, che gli Egizii
abbiano preso qualche degno o indegno
principio da quelli. Onde noi Greci conoscemo per parenti de le nostre favole,
metafore e dottrine la gran monarchia de
le lettere e nobilitade, Egitto, e non
quella generazione la quale mai ebbe un palmo di terra che
fusse naturalmente o
per giustizia civile il suo; onde a sufficienza si può
conchiudere che non sono
naturalmente, come né per lunga violenza di fortuna mai
furono, parte del mondo.
55 \ SAUL.\ Questo, o Sofia, sia detto da Giove per
invidia; perché quindi
degnamente son detti e si dicono santi, per essere più
tosto generazion celeste
e divina che terrestre ed umana; e non avendo degna parte
di questo mondo,
vegnono approvati da gli angeli eredi di quell'altro, il quale tanto è più degno
quanto non è uomo, o grande o picciolo, o savio o stolto,
che per forza o di
elezione o di fato non possa acquistarlo,
e certissimamente tenerlo per suo.
56 \ SOFIA\ Stiamo in proposito, o Saulino.
57 \ SAUL.\ Or dite, che cosa volse Giove che succedesse a
quella piazza?
58 \ SOFIA\ La Temperanza, la Civilità, la Urbanitade, mandando giù la
Intemperanza, l'Eccesso, l'Asprezza, Selvaticia,
Barbaria.
59 \ SAUL.\ Come, o Sofia, la Temperanza ottiene medesima
sedia con
l'Urbanitade?
60 \ SOFIA\ Come la madre può coabitar con
la figlia; perché per l'Intemperanza
circa gli affetti sensuali ed
intellettuali si dissolveno, disordinano,
disperdeno ed indiluviano
le fameglie, le republiche, le civili conversazioni ed
il mondo; la Temperanza è quella che riforma il tutto,
come ti farò intendere,
quando andaremo visitando queste stanze.
61 \ SAUL.\ Sta bene.
62 \ SOFIA\ Or, per venire alli Pesci, si alzò in piedi la
bella madre di
Cupido, e disse: - Vi raccomando con tutto
il mio core (per il ben che mi volete
ed amor che mi portate, o dei) li miei padrini, li quali al lido del fiume
Eufrate versâro quel grand'ovo
che covato dalla colomba ischiuse la mia
misericordia. - Tornino dunque là dove
erano, disse Giove; ed assai li baste di
esser stati qua tanto tempo, e che se gli confirme
il privilegio che gli Siri
non le possano mangiar senza essere iscomunicati;
e guardinsi che di nuovo non
vegna qualche condottiero Mercurio, che,
togliendoli le ova interiori, forme
qualche metafora di nuova misericordia per sanar il mal de
gli occhi di qualche
cieco; perché non voglio che Cupido apra
gli occhi, atteso che, se cieco tira
tanto diritto ed impiaga tanti quanti
vuole, che pensate farrebe, se avesse gli
occhi tersi? Vadino dunque là e stiano in
cervello per quel ch'ho detto. Vedete
come da per se medesimo il Silenzio, la Taciturnità,
in forma con cui apparve ne
l'Egitto e Grecia il simulacro di Pixide, con l'indice apposto alla bocca, va a
prendere il suo loco. Or lasciatelo
passar, non gli parlate, non gli dimandate
nulla. Vedete come da quell'altro canto si spicca la Ciarla, la Garrulità, la
Loquacità con altri servi, damigelle ed assistenti. -
Soggionse Momo: - Tolgasi
ancora alla mal'ora quella chioma detta gli Crini
di Berenice, e sia portata da
quel Tessalo a vendere in terra a qualche calva
principessa. - Bene! - rispose
Giove. - Or vedete purgato il spacio del signifero, dove
son prese trecento
quaranta sei stelle notabili: cinque massime, nove grandi,
sessanta quattro
mediocri, cento trentatré picciole, centocinque minori, vintisette minime, tre
Terza parte del terzo dialogo.
1 - Or ecco, come s'offre da essere ispedita la terza
parte del cielo, disse
l'altitonante: la parte detta australe, detta meridionale,
dove prima, o
Nettuno, ne si presenta quel tuo grande animalaccio. - Il
Ceto, disse Momo, se
non è quello che servì per galea,
per cocchio o tabernaculo al profeta
di
Ninive, e questo a lui per pasto, medicina
e vomitorio, se non è il trofeo del
trionfo di Perseo, se non è il protoparente di Ianni
de l'Orco, se non è la
bestiazza di Cola Catanzano, quando descese a gli inferi: io,
benché sia uno de'
gran secretarii della republica celestiale,
non so qual mal'ora egli si sia.
Vada, se cossì piace a Giove, in Salonicca;
e veda se può servir per qualche
bella favola a la smarrita gente e popolo
della dea Perdizione. E perché, quando
questo animale si scuopre sopra l'alto bogliente e tempestoso mare, annunzia la
futura tranquillità di quello, se non in quel medesimo
giorno, in uno di quei
che vegnono appresso: però mi par che, nel suo grado,
debba esser stato buon
tipo della tranquillità del spirito. - È bene, disse
Giove, che questa soprana
virtù, detta Tranquillità de l'animo, appaia in cielo, se
la è quella che salda
gli uomini contra la mondana instabilità, le rende constanti contra l'ingiurie
della fortuna, le mantiene rimossi dalla cura de le
administrazioni, le conserva
poco studiosi de novitadi, le fa poco
molesti a nemici, poco gravi ad amici ed
in punto suggetti a vana gloria; non perplessi
per la varietà di casi, non
irresoluti a gli rancontri
de la morte. - Appresso dimandò Nettuno: - Che
farrete, o dei, del mio favorito, del mio bel mignone,
di quell'Orione dico, che
fa, per spavento (come dicono gli etimologisti),
orinare il cielo?
2 - Qua, rispose Momo: - Lasciate proponere a me, o dei.
Ne è cascato, come è
proverbio in Napoli, il maccarone dentro il
formaggio. Questo, perché sa far de
maraviglie, e, come Nettuno sa, può caminar
sopra l'onde del mare senza
infossarsi, senza bagnarsi
gli piedi; e con questo consequentemente potrà far
molte altre belle gentilezze; mandiamolo tra gli uomini; e
facciamo che gli done
ad intendere tutto quello che ne pare e piace, facendogli
credere che il bianco
è nero, che l'intelletto umano, dove li par meglio vedere,
è una cecità; e ciò
che secondo la raggione pare eccellente, buono ed ottimo,
è vile, scelerato ed
estremamente malo; che la natura è una puttana bagassa, che la legge naturale è
una ribaldaria; che la natura e divinità non possono concorrere in uno medesimo
buono fine, e che la giustizia de l'una non è subordinata
alla giustizia de
l'altra, ma son cose contrarie, come le tenebre e la luce;
che la divinità tutta
è madre di Greci, ed è come nemica matrigna
de l'altre generazioni; onde nessuno
può esser grato a' dei altrimente che grechizando,
idest facendosi Greco: perché
il più gran scelerato e poltrone ch'abbia la Grecia, per
essere appartenente
alla generazione de gli dei, è incomparabilmente megliore
che il più giusto e
magnanimo ch'abbia possuto uscir da Roma in tempo che fu
republica, e da
qualsivoglia altra generazione, quantunque meglior in
costumi, scienze,
fortezza, giudicio, bellezza ed autorità. Perché questi
son doni naturali e
spreggiati da gli dei, e lasciati a quelli che non son
capaci de più grandi
privilegii: cioè di que' sopranaturali che
dona la divinità, come questo di
saltar sopra l'acqui, di far ballare i granchi, di far fare capriole a' zoppi,
far vedere le talpe senza occhiali ed altre belle galanterie innumerabili.
Persuaderà con questo che la filosofia,
ogni contemplazione ed ogni magia che
possa fargli simili a noi, non sono altro che pazzie; che
ogni atto eroico non è
altro che vegliaccaria; e che la ignoranza
è la più bella scienza del mondo,
perché s'acquista senza fatica e non rende l'animo affetto
di melancolia. Con
questo forse potrà richiamare e ristorar il
culto ed onore ch'abbiamo perduto,
ed oltre avanzarlo, facendo che gli nostri mascalzoni siano stimati dei per
esserno o Greci o ingrecati.
Ma con timore, o dei, io vi dono questo conseglio;
perché qualche mosca mi susurra
ne l'orecchio: atteso che potrebbe essere che
costui al fine trovandosi la caccia in mano, non la tegna
per lui, dicendo e
facendoli oltre credere, che il gran Giove non è Giove, ma
che Orione è Giove; e
che li dei tutti non sono altro che chimere
e fantasie. Per tanto mi par pure
convenevole che non permettiamo, che per
fas et nefas, come dicono, voglia far
tante destrezze e demostranze, per quante
possa farsi nostro superiore in
riputazione.
3 Qua rispose la savia Minerva: - Non so, o
Momo, con che senso tu dici queste
paroli, doni questi consegli, metti in
campo queste cautele. Penso ch'il parlar
tuo è ironico; perché non ti stimo tanto
pazzo che possi pensar che gli dei
mendicano con queste povertadi
la riputazione appresso gli uomini; e, quanto a
questi impostori, che la falsa riputazion
loro, la quale è fondata sopra
l'ignoranza e bestialità de chiunque le riputa
e stima, sia lor onore più presto
che confirmazione della loro indignità e sommo vituperio.
Importa a l'occhio
della divinità e presidente verità, che uno sia buono e
degno, benché nessuno de
mortali lo conosca; ma che un altro falsamente
venesse sino ad essere stimato
dio da tutti mortali, per ciò non si aggiongerà
dignità a lui, perché solamente
vien fatto dal fato instrumento ed indice per cui si vegga
la tanto maggiore
indignità e pazzia di que' tutti, che lo stimano, quanto
colui è più vile,
ignobile ed abietto. Se dunque si prenda non solamente
Orione il quale è Greco
ed uomo di qualche preggio; ma uno della
più indegna e fracida generazion del
mondo, di più bassa e sporca natura e spirito, che sia adorato per Giove: certo
mai verrà esso onorato in Giove, né Giove spreggiato in
lui: atteso che egli
mascherato ed incognito
ottiene quella piazza o solio, ma più tosto altri
verranno vilipesi e vituperati in lui. Mai
dunque potrà un forfante essere
capace di onore per questo, che serve per scimia
e beffa di ciechi mortali con
il ministero de genii nemici..
4 Or sapete, disse Giove, quel che definisco
di costui, per evitar ogni
possibile futuro scandalo? Voglio che vada via a basso; e
comando che perda
tutta la virtù di far de bagattelle, imposture, destrezze,
gentilezze ed altre
maraviglie che non serveno di nulla; perché con quello non
voglio che possa
venire a destruggere quel tanto di
eccellenza e dignità che si trova e consiste
nelle cose necessarie alla republica del mondo; il qual
veggio quanto sia facile
ad essere ingannato, e per conseguenza inclinato alle pazzie e prono ad ogni
corrozione ed indignità. Però non voglio
che la nostra riputazione consista
nella discrezione di costui o altro simile; perché, se
pazzo è un re, il quale a
un suo capitano e generoso duca dona tanta potestà ed
autorità per quanta quello
se gli possa far superiore (il che può essere senza
pregiudicio del regno, il
quale potrà cossì bene, e forse meglio, esser governato da
questo che da
quello); quanto più sarà insensato e degno
di correttore e tutore, se ponesse
o
lasciasse nella medesima autorità un uomo
abietto, vile ed ignorante, per cui
vegna ad essere invilito, strapazzato,
confuso e messo sotto sopra il tutto;
essendo per costui posta la ignoranza in consuetudine di
scienza, la nobilità in
dispreggio e la villania in riputazione!
5 - Vada presto, disse Minerva; ed in quel spacio succeda
la Industria,
l'Esercizio bellico ed Arte militare; per cui si mantegna
la patria pace ed
autoritade; si appugneno, vincano
e riducano a vita civile ed umana
conversazione gli barbari; si annulleno
gli culti, religioni, sacrificii e leggi
inumane, porcine,
salvatiche e bestiali; perché ad effettuar questo tal volta
per la moltitudine de' vili ignoranti e scelerati, la
quale prevale a' nobili
sapienti e veramente buoni, che son pochi, non basta la
mia sapienza senza la
punta de la mia lancia, per quanto cotali
ribaldarie son radicate, germogliate e
moltiplicate al mondo. - A cui rispose
Giove: - Basta, basta, figlia mia, la
sapienza contra queste ultime cose, che
da per sé invecchiano, cascano, son
vorate e digerite dal tempo, come cose di
fragilissimo fondamento. - Ma in
questo mentre, disse Pallade, bisogna resistere e ripugnare, a fin che con la
violenza non ne destruggano prima che le riformiamo.
6 - Venemo, disse Giove, al fiume Eridano; il quale non so
come trattarlo; e
che è in terra e che è in cielo, mentre le altre cose, de
le quali siamo in
proposito, facendosi in cielo, lasciâro la
terra. Ma questo e che è qua, e che è
là; e che è dentro, e che è fuori; e che è alto, e che è
basso; e che ha del
celeste, e che ha del terrestre; e che è là, ne l'Italia,
e che è qua, nella
region australe; or non mi par cosa a cui bisogna donare,
ma a cui convegna che
sia tolto qualche luogo. - Anzi, disse Momo, o Padre, mi
par cosa degna (poi che
ha questa proprietade l'Eridano fiume di
posser medesimo esser suppositale- e
personalmente in più parti) che lo
facciamo essere ovunque sarà imaginato,
nominato, chiamato e riverito: il che
tutto si può far con pochissima spesa,
senza interesse alcuno, e forse non senza
buon guadagno. Ma sia di tal sorte,
che chi mangiarà de suoi pesci imaginati,
nominati, chiamati e riveriti, sia
come, verbigrazia, non mangiasse; chi
similmente beverà de le sue acqui, sia pur
come colui che non ha da bere; chi parimente l'arà dentro
del cervello, sia pur
come colui che l'ha vacante e vodo; chi di
medesima maniera arà la compagnia de
le sue Nereidi e Ninfe, non sia men solo che colui che è
anco fuor di se stesso.
Bene! disse Giove; qua non è pregiudizio alcuno, atteso
che per costui non
averrà che gli altri rimagnano senza cibo, senza da bere,
senza che gli reste
qualche cosa in cervello e senza compagni, per essere quel
lor mangiare, bere,
averlo in cervello e tenere in compagnia, in imaginazione,
in nome, in voto, in
riverenza; però sia, come Momo propone, e veggio che gli
altri confirmano. Sia
dunque l'Eridano in cielo, ma non altrimente che per
credito ed imaginazione. Là
onde non impedisca, che in quel medesimo
luogo veramente vi possa essere
qualch'altra cosa di cui in un altro di questi prossimi
giorni definiremo;
perché bisogna pensare sopra di questa sedia, come sopra
quella de l'Orsa
maggiore.
7 Provediamo ora a la Lepre, la qual voglio che sia stata
tipo del timore per la
Contemplazion de la morte; ed anco, per quanto si può, de
la Speranza e
Confidenza, la quale è contraria al Timore: perché in
certo modo l'una e l'altra
son virtudi, o almeno materia di quelle, se son figlie
della Considerazione e
serveno a la Prudenza. Ma il vano Timore, Codardiggia e
Desperazione vadano
insieme con la Lepre a basso a caggionare
il vero inferno ed Orco de le pene a
gli animi stupidi ed ignoranti. Ivi non sia luogo tanto
occolto in cui non entre
questa falsa Suspettazione ed il cieco
Spavento de la morte, aprendosi la porta
d'ogni rimossa stanza mediante gli falsi
pensieri che la stolta Fede ed orba
Credulitade parturisce, nutrisce ed allieva; ma non già (se non con vane forze)
s'accoste dove l' inespugnabil muro
della filosofica contemplazion vera circonda,
dove la quiete de la vita sta fortificata
e posta in alto, dove è aperta la
verità, dove è chiara la necessitade de l'eternità d'ogni
sustanza; dove non si
dee temer d'altro che d'esser spogliato
dall'umana perfezione e giustizia, che
consiste nella conformità de la natura
superiore e non errante. - Qua disse
Momo: - Intendo, o Giove, che chi mangia la lepre, si fa
bello; facciamo dunque
che chiunque mangiarà di questo animal celeste, o maschio
o femina ch'egli sia,
da brutto dovegna formoso, da disgraziato grazioso, da cosa feda
e dispiacevole
piacevole e gentile; e fia beato il ventre
e stomaco che ne cape, e digerisce, e
si converte in essa. -Sì; ma non voglio, disse Diana, che
de la mia lepre si
perda la semenza. - Oh, io ti dirò, disse
Momo, un modo con cui tutto il mondo
ne potrà e mangiare e bevere senza che la sia mangiata e bevuta, senza che sia
dente che la tocche, mano che la palpe, occhio che la vegga e forse ancora luogo
8 - Di questo, disse Giove, ne raggionarete
poi. Ora venendo a questo Cagnazzo
che gli corre appresso, mentre per tante centinaia d'anni
l'apprende in spirito,
e per tema di perdere la materia d'andar più cacciando,
mai viene quell'ora che
la prenda in veritade, e tanto tempo gli va latrando
a dietro, fingendosi le
risposte. - Di questo mi son lamentato
sempre, o padre, disse Momo, che hai mal
dispensato, facendo che quel can mastino
che fu messo a perseguitar la tebana
volpe, l'hai fatto montare al cielo, come fusse un levriero alla coda d'una
lepre, facendo rimaner là giù la volpe trasmutata
in sasso. - Quod scripsi,
scripsi, disse Giove. - E questo, disse Momo, è il male:
che Giove ha la sua
volontà per giustizia, ed il suo fatto
per fatal decreto, per far conoscere
ch'egli ave absoluta autoritade, e per non donar a credere
ch'egli confesse di
posser fare, o aver fatto errore, come soglion
fare altri dei, che, per aver
qualche ramo de discrezione, tal volta si
penteno, si ritrattano e corregono.
-
Ed ora, disse Giove, che pensi che sia quel che facciamo
adesso, tu, che da un
particolare vuoi inferir la sentenza
generale? -Si escusò Momo che lui inferiva
in generale in ispecie, cioè in cose
simili; non in genere, cioè in tutte le
cose.
9 \ SAUL.\ La chiosa fu buona, perché non è il simile dove
è altrimente.
10 \ SOFIA\ Ma soggionse: - Però, padre santo, poi che hai
tanta potestà che
puoi fare di terra cielo, di pietre pane e di pane
qualch'altra cosa, finalmente
puoi fare sin a quel che non è, né può esser fatto; fa'
che l'arte di
cacciatori, idest la Venazione, come è una
maestrale insania, una regia pazzia
ed uno imperial furore, vegna ad essere
una virtù, una religione, una santità; e
che grande sia onore a uno per esser carnefice, ammazzando, scorticando,
squartando e sbudellando
una bestia salvaggia. Di ciò benché convenerebbe a
Diana di priegarti, tutta via io la
dimando, per esser talvolta cosa onesta che,
in caso d'impetrar beneficio e dignitade, più tosto
s'interpona un altro, che
quel medesimo, a chi spetta, vegna per se medesimo a presentarsi, introdursi e
proporsi: atteso che con suo maggior
scorno gli verrebe negato, e con minor suo
decoro gli sarrebe conceduto quel che cerca. - Rispose
Giove: -Benché, come
l'esser beccaio debba essere stimata un'arte ed esercizio
più vile che non è
l'esser boia (come è messo in consuetudine in certe parti
d'Alemagna), perché
questa si maneggia pure in contrattar membri umani, e
talvolta administrando
alla giustizia; e quello ne gli membri d'una povera
bestia, sempre amministrando
alla disordinata gola, a cui non basta il cibo ordinato
dalla natura, più
conveniente alla complessione e vita dell'uomo (lascio
l'altre più degne
raggione da canto); cossì l'esser cacciatore è uno
esercizio ed arte non meno
ignobile e vile che l'esser beccaio; come non ha minor
raggion di bestia la
salvatica fiera che il domestico e
campestre animale. Tutta volta mi pare e
piace, per non incusare, ed a fine che
non vegna incusata di vituperio la mia
figlia Diana, ordino che l'essere carnefice d'uomini sia
cosa infame; l'esser
beccaio, idest manigoldo d'animali domestici, sia cosa
vile; ma l'esser boia di
bestie salvatiche sia onore, riputazion buona e gloria.
-Ordine, disse Momo,
conveniente non a Giove quando è stazionario
o diretto, ma quando è retrogrado.
Mi maravigliavo io, quando vedevo questi sacerdoti de Diana, dopo aver ucciso un
daino, una capriola, un
cervio, un porco cinghiale o qualch'altro di questa
specie, inginocchiarsi in terra, snudarsi il capo, alzar verso gli astri le
palme; e poi con la scimitarra propria troncargli la testa, appresso cavargli il
cuore prima che toccar gli altri membri; e cossì
successivamente con un culto
divino adoprando il picciolo coltello, procedere di mano
in mano a gli altri
ceremoni; onde appaia con quanta religione e pie
circonstanze sa far la bestia
lui solo che non admette compagno a questo affare,
ma lascia gli altri con certa
riverenza e finta maraviglia star in circa a remirare. E
mentre lui è tra gli
altri l'unico manigoldo, si stima essere a punto quel
sommo sacerdote a cui solo
era lecito di portare il Semammeforasso,
e ponere il piè entro in Santasantoro.
Ma il male è che sovente accade che, mentre questi Atteoni vanno perseguitando
gli cervi del deserto, vegnono dalla lor
Diana ad esser convertiti in cervio
domestico, con quel rito magico soffiandogli
al viso, e gittandogli l'acqua de
la fonte a dosso, e dicendo tre volte:
over, incantandolo per volgare, in questa
altra maniera:
Con tanta diligenza
Che medesimo in sustanza
Compagno te gli festi. Amen.
11 Cossì dunque, conchiuse Giove, io voglio che la
venazione sia una virtù;
atteso a quel che disse Iside in proposito de le bestie;
ed oltre, perché con
tanto diligente vigilanza, con sì religioso culto s' incerviano, incinghialano,
inferiscono ed imbestialano.
Sia, dico, virtù tanto eroica che quando un
prencipe perseguita una dama,
una lepre, un cervio o altra fiera, faccia conto
che le nemiche legioni gli corrano avanti;
quando arà preso qualche cosa, sia a
punto in quel pensiero, come avesse alle mani cattivo quel
prencipe o tiranno di
cui più teme: onde non senza raggione vegna a far que' bei
ceremoni, rendere
quelle calde grazie e porgere al cielo quelle
belle e sacrosante bagattelle. -
Ben provisto per il luogo del cane cacciatore, disse Momo;
il quale sarà bene
d'inviarlo in Corsica o in Inghilterra.
Ed in suo luogo succeda la Predicazione
della verità, il Tirannicidio, il Zelo de la patria e di cose
domestiche, la
Vigilanza, la Custodia e Cura della republica. Or che
farremo, disse, de la
Cagnolina? - Allora s'alzò la blanda
Venere e la dimandò in grazia a gli dei,
perché qualche volta per passatempo suo e de le sue
damigelle, con quel vezzoso
rimenamento de la persona, con que' baciotti e con quel gentil applauso di coda,
a tempo de le lor vacanze, gli scherze in
seno. - Bene, disse Giove; ma vedi,
figlia, che voglio che seco si parta l'Assentazione,
l'Adulazione tanto amate,
quanto perpetuamente odiati Zelo e
Dispreggio; perché in quel loco voglio che
sia la Domestichezza, Comità, Placabilità, Gratitudine,
semplice Ossequio ed
amorevole Servitude. - Fate, rispose la
bella dea, del resto quel che vi piace;
perché senza queste cagnoline non si può
vivere felicemente in corte, come in
quelle medesime non si può virtuosamente perseverare senza coteste virtudi che
12 E non sì tosto ebbe chiusa la bocca la dea di Pafo, che
Minerva l' aperse
dicendo: - Or, a che fine destinate la mia
bella manifattura, quel palaggio
vagabondo, quella stanza mobile, quella bottega e quella fiera errante, quella
vera balena che gli traghiuttiti
corpi vivi e sani le va a vomire ne gli estremi
lidi de le opposte, contrarie e diverse margini del mare? - Vada, risposero
molti dei, con l' abominevole Avarizia,
con la vile e precipitosa Mercatura, col
desperato Piratismo, Predazione,
Inganno, Usura ed altre scelerate serve,
ministre e circonstanti di costoro. Ed ivi risieda
la Liberalità, la
Munificenza, la Nobiltà di spirito, la
Comunicazione, Officio ed altri degni
ministri e servi loro. - Bisogna, disse Minerva, che sia
conceduta ed
appropriata a qualcuno. - Fa' di quella
ciò che a te piace, disse Giove. - Or
dunque, disse lei, serva a qualche sollecito Portughese,
o curioso ed avaro
Britanno, acciò con essa vada a discuoprir altre terre ed altre regioni verso
l' India occidentale, dove il capo aguzzo Genovese non ha discuoperto, e non ha
messo i piedi il tenace e stiptico
Spagnolo; e cossì successivamente serva per
l'avenire al più curioso, sollecito e diligente investigator de nuovi continenti
e terre.
13 Finito avendo il suo proposito Minerva, cominciò a
farsi udir in questo
tenore il triste, restio e maninconioso
Saturno: - Mi pare, o dei, che tra gli
riservati per rimaner in cielo, con gli Asinelli,
Capricorno e Vergine, sia
questa Idra, questo antico e gran serpente che dignissimamente ottiene la patria
celeste, come quello, che ne revendicò da
le onte de l'audace e curioso
Prometeo, non tanto amico di nostra gloria, quanto troppo
affezionato a gli
uomini, quali volea che per privilegio e prorogativa
de l'immortalitade ne
fussero a fatto simili ed uguali. Questo fu quel sagace ed
accorto animale,
prudente, versuto, callido,
astuto e fino più che tutti gli altri che la
terra
produca; che, quando Prometeo ebbe subornato il mio
figlio, vostro fratello e
padre Giove, a donargli quelle otre o
barilli pieni di vita eterna, accadde che,
avendone cargato un asino, mettendoli
sopra quella bestia per condurli alla
region de gli uomini l'asino (perché per qualche tratto di
camino andava avanti
al suo agasone) cotto dal sole, bruggiato dal caldo, arefatto da la fatica,
sentendosi gli pulmoni disseccati da la sete, venne invitato da costui al fonte;
dove (per esser quello alquanto cavo e
basso, di maniera che l'acqua per doi o
tre palmi era lontana da l'equalità de la
terra) bisognò che l'asino si curvasse
e si piegasse tanto, per toccar la
liquida superficie con le labbia, che vennero
a cascargli dal dorso gli barilli, si
ruppero gli otricelli, si versò la vita
eterna, e tutta venne a disperdersi per
terra e quel pantano che facea corona
con l'erbe al fonte. Costui se ne raccolse
destramente qualche particella per
lui: Prometeo rimase confuso, gli uomini sotto la triste
condizione della
mortalità, e l'asino, perpetuo ludibrio e nemico di questi, condannato
dall'umana generazione, consenziente
Giove, ad eterne fatiche e stenti, a
pessimo cibo, che trovar si possa, ed a soldo
di spesse e grosse bastonate.
Cossì, o dei, per caggion di costui aviene che gli uomini
facciano qualche caso
de fatti nostri: perché vedete che ora, quantunque siano
mortali, conoscano la
loro imbecillità ed aspettan
pure di passare per le nostre mani, e ne
dispreggiano, si beffano de fatti nostri,
e ne reputano come scimie e
gattimammoni; che farrebono se fussero
similmente, come noi siamo, immortali? -
Assai bene definisce Saturno, -disse Giove. - Stiasi dunque, risposero gli dei
tutti. - Ma partasi, soggionse Giove, la
Invidia, la Maldicenza, la Insidia,
Buggia, Convizio, Contenzione e Discordia;
e le virtudi contrarie rimagnano con
la serpentina Sagacità e Cautela. Ma quel Corvo non posso
patire che sia là;
però Apolline tolga quel suo divino, quel buon servitore,
quel sollecito
ambasciatore e diligente novelliero
e posta, che tanto bene effettuò il
comandamento de gli dei, quando
aspettavano di tôrsi la sete per la sedulità del
costui serviggio. - Se vuol regnare, disse Apolline, vada
in Inghilterra dove ne
trovarà le mille leggioni. Se vuol
dimorar solitario, stenda il suo volo al
Montecorvino appresso Salerno.
Se vuole andar, dove son molti fichi, vada in
Figonia, cioè, dove la riva
bagna il Ligustico mare, da Nizza
in sino a Genova.
Se è tirato da la gola de cadaveri, vadasi
rimenando per la Campania, o pur per
il camino, che è tra Roma e Napoli, dove son messi in quarti tanti ladroni che,
da passo in passo, di carne fresca gli
vengono apparecchiati più spessi e
suntuosi banchetti che
possa ritrovar in altra parte del mondo. - Soggionse
Giove: -Vadano ancora a basso la Turpitudine,
la Derisione, il Dispreggio, la
Loquacità, l'Impostura; ed in quella sedia succeda la
Magia, la Profezia ed ogni
Divinazione e Prognosticazione, da gli
effetti giudicata buona ed utile.
14 \ SAUL.\ Vorrei intendere il tuo parere, o Sofia, circa
la metafora del
corvo; la qual primamente fu trovata e figurata in Egitto,
e poi in forma
d'istoria è presa da gli Ebrei, con gli quali questa
scienza trasmigrò da
Babilonia; ed in forma di favola è tolta
da quei che poetôrno in Grecia. Atteso
che gli Ebrei dicono d'un corvo inviato da l'arca per
uomo, che si chiamava Noè,
per veder se le acqui erano secche, a
tempo che gli uomini aveano tanto bevuto
che crepôrno; e questo animale, rapito da
la gola de cadaveri, rimase, e non
tornò mai dalla sua legazione e
serviggio. Il che pare tutto contrario a quello
che raccontano gli Egipzii e Greci, che
il corvo sia stato inviato dal cielo da
un dio, chiamato Apolline da questi, per vedere se trovava de l'acqua, a tempo
che gli dei si morevano quasi di sete; e questo animale,
rapito dalla gola de
gli fichi, dimorò molti giorni, e tornò
tardi al fine, senza riportar l'acqua,
e,.credo, avendo perso il vase.
15 \ SOFIA\ Non voglio al presente stendermi
a dechiararti la dotta metafora; ma
questo sol ti voglio dire: che il dir di Egizii e de Ebrei
tutto va a rispondere
a medesima metafora; perché dire che il corvo si parta da
l'arca, che è diece
cubiti sullevata sopra
il più alto monte de la terra e che si parta dal cielo,
mi par che sia quasi tutt'uno. E che gli uomini, che si
trovano in tal luogo e
regione, siano chiamati dei, non mi par troppo alieno; perché, per esser
celesti, con poca fatica possono esser dei. E che da
questi sia detto Noè
quell'uomo principale e da quegli altri Apolline,
facilmente s' accorda; perché
la denominazione differente concorre in un
medesimo officio di regenerare:
atteso che sol et homo generant
hominem. E che sia stato a tempo che gli uomini
aveano troppo da bere, e che sia stato quando gli dei si
morevano di sete, certo
è tutto medesimo ed uno: perché, quando le cataratte del
cielo s'apersero e si
ruppero le cisterne del firmamento, è
cosa necessaria che si dovenesse a tale
che gli terreni avessero troppo da bere e gli celesti si morissero di sete. Che
il corvo sia rimaso allettato ed
invaghito per gli fichi, e che quello stesso
sia stato attratto dalla gola de corpi
morti, certamente viene tutto ad uno, se
considerarai la interpretazione di quello Giosefo,
che sapea dechiarar gli
sogni. Perché al fornaio di Putifaro (che
diceva aver avuto in visione, che
portava in testa un canestro de fichi, di
cui venevano a mangiar gli ucelli)
prenosticò che lui dovea essere appiccato, e de le sue carni doveano mangiar i
corvi e gli avoltori. Che il corvo fusse tornato, ma tardi e senza profitto
alcuno, è tutto medesimo, non solamente con il dire che
non tornò mai, ma anco
con il dire che mai fusse andato né
mandato; perché non va, non fa, non torna
chi va, fa e torna in vano. E sogliamo
dir ad un che viene tardi ed in vano,
ancor che riporte qualche cosa: Andaste, fratel mio, e non tornaste;
A Lucca me ti parse de
vedere.
16 Ecco dunque, Saulino, come le metafore egiziane
senza contradizione alcuna
possono essere ad altri istorie, ad altri favole, ad altri
figurati sentimenti.
17 \ SAUL.\ Questa tua concordanza di
testi, se al tutto non mi contenta, è
vicina a contentarmi. Ma per ora seguitate l'istoria principale.
18 \ SOFIA\ - Or che si farà de la Tazza? dimandò
Mercurio. De la giarra che si
farà? - Facciamo, disse Momo, che sia donata, iure successionis, vita durante,
al più gran bevitore che produca l'alta e
bassa Alemagna, dove la Gola è
esaltata, magnificata, celebrata e glorificata tra le virtudi eroiche; e la
Ebrietade è numerata tra gli attributi
divini: dove col treink e retreink, bibe
et rebibe, ructa reructa, cespita recespita, vomi
revomi usque ad egurgitationem
utriusque iuris, idest
del brodo, butargo, menestra,
cervello, anima e
salzicchia, videbitur porcus porcorum in gloria Ciacchi. Vadasene con quello
l'Ebrietade, la qual non la vedete là in abito todesco con un paio di bragoni
tanto grandi, che paiono le bigoncie del mendicante abbate di santo Antonio, e
con quel braghettone che da mezzo de l'uno
e l'altro si discuopre: di sorte che
par che voglia arietare il paradiso?
Guardate come la va, orsa, urtando ora con
questo ora con quel fianco, mo' di proda mo' di poppa, in qualche cosa, che non
è scoglio, sasso, cespuglio, o fosso a cui non vada a
pagar il fio. Scorgete con
ella gli compagni fidelissimi Replezione,
Indigestione, Fumositade,
Dormitazione, Trepidazione, alias Cespitazione, Balbuzie, Blesura,
Pallore,
Delirio, Rutto, Nausea, Vomito, Sporcaria ed altri seguaci, ministri e
circonstanti. E perché la non può più caminare, vedete
come rimonta sul suo
carro trionfale, dove sono legati
molti buoni, savii e santi personaggi de quali
li più celebri e famosi
sono Noemo, Lotto, Chiaccone, Vitanzano,
Zucavigna e
Sileno. L' alfiero Zampaglion
porta la banda fatta di scarlato; dove con
il color
di proprie penne appare di doi sturni il
natural ritratto; e gionti a doi
gioghi, con bella leggiadria tirano il
temone quattro superbi e gloriosi porci,
un bianco, un rosso, un vario, un negro;
de quali il primo si chiama
Grungarganfestrofiel, il secondo Sorbillgramfton, il terzo Glutius, il quarto
19 Ma di questo altre volte ti dirò a bastanza. Veggiamo
che fu, dopo ch'ebbe
ordinato Giove che vi succedesse l'Abstinenza e Temperanza
con gli lor ordini e
ministri, che udirai: perché adesso è
tempo, che vengamo a raggionar del
centauro Chirone, il qual venendo ordinatamente
a proposito, fu detto dal
vecchio Saturno a Giove: - Perché, o figlio e signor mio,
vedi ch'il sole è per
tramontare, ispediamo
presto questi altri quattro, s' el ti piace. - E Momo
disse: - Or, che vogliamo far di quest'uomo insertato
a bestia, o di questa
bestia inceppata ad uomo, in cui una
persona è fatta di due nature, e due
sustanze concorreno in una ipostatica unione? Qua due cose
vegnono in unione a
far una terza entità; e di questo non è dubio alcuno. Ma
in questo consiste la
difficultà; cioè, se cotal terza entità produce cosa
megliore che l'una e
l'altra, o d'una de le due parti, overamente
più vile. Voglio dire, se, essendo
a l'essere umano aggionto l'essere cavallino,
viene prodotto un divo degno de la
sedia celeste, o pur una bestia degna di esser messa in un
armento e stalla? In
fine (sia stato detto quanto si voglia da Iside, Giove ed
altri dell'eccellenza
de l'esser bestia, e che a l'uomo, per esser divino, gli
conviene aver de la
bestia, e quando appetisce mostrarsi
altamente divo, faccia conto di farsi
vedere in tal misura bestia), mai potrò credere che, dove
non è un uomo intiero
e perfetto, né una perfetta ed intiera
bestia, ma un pezzo di bestia con un
pezzo d'uomo, possa esser meglio che come dove è un pezzo
di braga con un pezzo
di giubbone, onde mai provegna veste
meglior che giubbone o braga, né meno
cossì, come questa o quella, buona. - Momo, Momo, rispose
Giove, il misterio di
questa cosa è occolto e grande, e tu non puoi capirlo;
però, come cosa alta e
grande, ti fia mestiero di solamente crederlo. - So bene,
disse Momo, che questa
è una cosa, che non può esser capita da
me, né da chiunque ha qualche picciolo
granello d'intelletto; ma che io, che son
un dio, o altro che si trova tanto
sentimento quanto esser potrebe un acino
di miglio, debba crederlo, vorrei che
da te prima con qualche bella maniera mi vegna donato a
credere. -Momo, disse
Giove, non devi voler sapere più di quel che bisogna
sapere, e credemi, che
questo non bisogna sapere. -Ecco dunque, disse Momo, quel
che è necessario
intendere, e ch'io al mio dispetto voglio sapere; e per
farti piacere, o Giove,
voglio credere che una manica ed un calzone vagliono più ch'un par di maniche ed
un par di calzoni, e di gran vantaggio
ancora; che un uomo non è uomo, che una
bestia non è bestia; che la metà d'un uomo non sia mezo
uomo, e che la metà
d'una bestia non sia meza bestia; che un mezo uomo e meza
bestia non sia uomo
imperfetto e bestia imperfetta,
ma bene un divo, e pura mente colendo. - Qua li
dei sollecitarono Giove, che s' espedisse presto e determinasse del Centauro
secondo il suo volere. Però Giove, avendo comandato
silenzio a Momo, determinò
in questo modo: - Abbia detto io medesimo contra Chirone
qualsivoglia proposito,
al presente io mi ritratto; e dico che, per esser Chirone
centauro uomo
giustissimo, che un tempo abitò nel monte
Pelia, dove insegnò ad Esculapio de
medicina, ad Ercole d'astrologia e ad Achille
de citara, sanando infermi,
mostrando come si montava verso le stelle,
e come gli nervi sonori s' attaccavano
al legno e si maneggiavano,
non mi par indegno del cielo. Appresso ne lo giudico
degnissimo, perché in questo tempio celeste, appresso
questo altare a cui
assiste, non è altro sacerdote che lui;
il qual vedete con quella offrenda
bestia in mano, e con un libatorio fiasco
appeso a la cintura. E perché
l'altare, il fano, l' oratorio è necessariissimo, e questo sarrebe vano senza
l' administrante, però qua viva, qua
rimagna e qua persevere eterno, se non
dispone altrimente il fato. - Qua suggionse Momo: - Degna
e prudentemente hai
deciso, o Giove, che questo sia il
sacerdote nel celeste altare e tempio;
perché, quando bene arà spesa quella bestia che tiene in
mano, è impossibile che
li possa mancar mai la bestia: perché lui medesimo, ed uno,
può servir per
sacrificio e sacrificatore, idest per
sacerdote e per bestia. - Or bene dunque,
disse Giove, da questo luogo si parta la Bestialità,
l'Ignoranza, la Favola
disutile e perniziosa; e dove è il
Centauro, rimagna la Semplicità giusta, la
Favola morale. Da ove è l'Altare, si parta la
Superstizione, l'Infidelità,
l'Impietà e vi soggiorne la non vana Religione, la non
stolta Fede e la vera e
sincera Pietade. - Qua propose Apolline: - Che sarà di
quella Tiara? a che è
destinata quella Corona? che vogliamo far
di essa? - Questa, questa, rispose
Giove, è quella corona, la quale, non senza alta disposizion del fato, non senza
instinto de divino spirito e non senza
merito grandissimo, aspetta
l' invittissimo Enrico
terzo, Re della magnanima, potente e bellicosa Francia;
che dopo questa e quella di Polonia, si promette, come nel principio del suo
regno ha testificato, ordinando quella sua
tanto celebrata impresa, a cui,
facendo corpo le due basse corone con un'altra più
eminente e bella,
s' aggiongesse per anima il motto:
Tertia coelo manet. Questo Re cristianissimo,
santo, religioso e puro può securamente
dire: Tertia coelo manet, perché sa
molto bene che è scritto Beati li pacifici,
beati li quieti, beati li mondi di
cuore, perché de loro è il regno de' cieli. Ama la pace,
conserva quanto si può
in tranquillitade e devozione il suo popolo diletto; non
gli piaceno gli rumori,
strepiti e fragori
d'instrumenti marziali che administrano al cieco acquisto
d'instabili tirannie e prencipati de la terra; ma tutte le
giustizie e santitadi
che mostrano il diritto camino al regno eterno. Non
sperino gli arditi,
tempestosi e turbulenti spiriti di quei
che sono a lui suggetti, che, mentre
egli vivrà (a cui la tranquillità de
l'animo non administra bellico furore),
voglia porgerli aggiuto per cui non
vanamente vadano a perturbar la pace de
l'altrui paesi, con pretesto d'aggionger gli altri scettri ed altre corone;
perché Tertia coelo manet. In vano contra sua voglia andaranno le rubelle
Franche copie a sollecitar
gli fini e lidi altrui; perché non sarà proposta
d'instabili consegli, non sarà speranza de volubili
fortune, comodità di esterne
administrazioni e suffragii che vagliano con specie d' investirlo de manti ed
ornarlo di corone, toglierli
(altrimente che per forza di necessità) la
benedetta cura della tranquillità di spirito, più tosto leberal del proprio che
avido de l'altrui. Tentino,
dunque, altri sopra il vacante regno Lusitano; sieno
altri solleciti sopra il Belgico dominio.
Perché vi beccarete la testa e vi
lambiccarete il cervello, altri ed altri
prencipati? perché suspettarete e
temerete voi altri prencipi e regi che non
vegna a domar le vostre forze, ed
involarvi le proprie corone? Tertia coelo
manet. Rimagna dunque (conchiuse
Giove) la Corona, aspettando colui che sarà degno del suo
magnifico possesso; e
qua oltre abbia il suo solio la Vittoria, Remunerazione,
Premio, Perfezione,
Onore e Gloria; le quali, se non son virtudi, son fine di
quelle.
20 \ SAUL.\ Or che dissero li dei?
21 \ SOFIA\ Non fu grande o picciolo, maggiore o minore,
maschio o femina, o
d'una e d'un'altra sorte, che si trovasse nel conseglio,
che con ogni voce e
gesto non abbia sommamente approvato il sapientissimo e
giustissimo decreto
Gioviale. Là onde, fatto tutto allegro e gioioso, il summitonante s'alzò in
piedi e stese la destra verso il Pesce
australe, di cui solo restava a definire,
e disse: -Presto tolgasi da là quel pesce, e non vi
rimagna altro che il suo
ritratto; ed esso in sustanza sia preso dal nostro cuoco, ed or ora, fresco
fresco, sia messo per compimento di nostra
cena parte in craticchia, parte in
guazzetto, parte in agresto,
parte acconcio come altrimente li pare e piace,
accomodato con salza romana.
E facciasi tutto presto, perché per il troppo
negociare io mi muoio di fame, ed il
simile credo de voi altri anco: oltre che
mi par convenevole che questo purgatorio non sia senza
qualche nostro profitto
ancora. - Bene, bene, assai bene! risposero tutti gli dei;
ed ivi si trove la
Salute, la Securità,
l'Utilità, il Gaudio, il Riposo e somma Voluttade, che son
parturite dal premio de virtudi, e remunerazion de studi e fatiche. -.
22 E con questo festivamente usciro dal conclave, avendo purgato il spacio oltre
il signifero, che contiene trecento e sedeci stelle segnalate.
23 \ SAUL.\ Or ed io me ne vo alla mia cena.
24 \ SOFIA\ Ed io mi ritiro alle notturne contemplazioni.
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Impresionantă demonstraţie! Felicitări şi mulţumiri! Ion S.
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